A game to play - Perché Agostino Di Bartolomei era Luigi Tenco

Oltre il peso di un finale tragico: voci critiche in mondi patinati e spesso impermeabili.

Luigi Tenco
Luigi Tenco / Vittoriano Rastelli/GettyImages
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Un epilogo drammatico, un finale che strappa il cuore, non può e non deve porsi come cifra che accomuna due esistenze: sarebbe ingeneroso e superficiale prendere la chiusura del sipario come metro di paragone tra più vite, in modo decontestualizzato e totalizzante, si finirebbe insomma per racchiudere il senso delle cose nel loro atto conclusivo (per quanto oggetto di numerosi racconti mediatici, di congetture e illazioni in grado di dilatarlo nei decenni).

Nel capitolo sulla carta più complesso di questo percorso fatto di associazioni tra musica e pallone, si prova dunque a tracciare un contatto tra Luigi Tenco e Agostino Di Bartolomei e lo si fa, necessariamente in punta di piedi, provando a tenerci alla larga dal sipario che si chiude, senza renderlo una chiave univoca di lettura ma provando a ricomporre diversamente il puzzle.

Tradimento e perdono

Un percorso che si preannuncia in salita trova però una potente spinta nel lavoro di chi, per professione da un lato e per profonda appartenenza dall'altro, ha già pensato di trovare un punto di connessione tra i due: Antonello Venditti, da romanista e da cantante, nella sua Tradimento e perdono (Dalla pelle al cuore, 2007) consegna già tutto il senso di un parallelismo, arricchito dalla profondità e dalla sincerità di chi lo vive da dentro (poiché tifoso e poiché artista).

Lo stesso Venditti rese esplicito il proprio intento, nel corso della preparazione dell'album del 2007, e rese ancor più evidenti le ragioni di una connessione: "Tradimento e perdono è un omaggio ai campioni traditi dal successo. Abbandonati da quel pubblico che prima ne fa delle icone e che poi abbandona senza comprensione", riporta Il Giornale. Il cantautore romano entrò poi nel merito di Agostino Di Bartolomei come scintilla ispiratrice del pezzo, simbolo e capitano della sua Roma ma soprattutto amico: "Era un caro amico. Ed è a lui che pensavo quando mi sono messo a comporre", affermò Venditti.

"Quel sorriso sgomento anche se vinto, non mi tormenta più. Mi ricorda Luigi, pieno di amici, solo e lasciato lì. Se ci fosse attenzione per il campione oggi sarebbe qui"

Antonello Venditti, Tradimento e perdono

La solitudine dei campioni

Il cantautore individua in quel brano anche un ulteriore riferimento, un terzo elemento come Marco Pantani, andando dunque ad arricchire il proprio quadro e a tracciare un percorso fatto di campioni (nel senso più ampio del termine, investendo anche la musica) che hanno conosciuto la gloria ma che, negli anni, hanno dovuto fare i conti con le solitudini e le contraddizioni di contesti privi di memoria, privi talvolta di riconoscenza (o di semplice riconoscimento).

"La mia più grande ambizione è quella di fare in modo che la gente possa capire chi sono io attraverso le mie canzoni, cosa che non è ancora successa", necessità disillusa di riconoscimento appunto, come ci permette di capire lo stesso Tenco con le sue parole rilasciate nel 1962 a un Sandro Ciotti ancora lontano dal divenire il telecronista che tutti avremmo poi apprezzato, ancora legato alle proprie radici musicali.

Luciano Salce
Tenco / Vittoriano Rastelli/GettyImages

I messaggi traditi e travisati, dunque, fanno parte in profondità di questa connessione tra calcio e musica: da un lato un Tenco mosso innanzitutto dalla volontà di spiegare se stesso e - al contempo - di esprimere la propria visione della musica, una visione in netta discontinuità con quella quantomai esterofila (a suo dire provincialistica) che dominava in Italia. D'altro canto Di Bartolomei, tradito dalla sua Roma (a livello di scelte societarie e di rapporti poi degenerati con gli ex compagni), e intenzionato poi - dopo il ritiro - a seminare valori per il calcio di domani, trovando di fronte a sé porte chiuse e ostacoli.

"A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi" suona come una vera e propria dichiarazione d'intenti, rimasta disillusa e inascoltata, un po' in linea col monito di Tenco rispetto al mondo della musica e alla necessità di trovare una via "italiana" che di discostasse dalla direzione esterofila dominante.

A game to play, gli altri capitoli:

I messaggi rimasti lì

C'è qualcosa che risuona poi in modo evidente quando si tocca il tema dell'incomunicabilità, della riservatezza talvolta fraintesa e confusa, in questo senso le parole dei due sembrano mescolarsi: "Anche per il fatto di essere molto introverso è difficile che io comunichi con la gente. L'unica cosa che paga è il lavoro, con umiltà, con sangue, con dolore. Probabilmente hanno maggiore facilità quelli che riescono a sorridere un po' tutti" raccontava Di Bartolomei; "Adesso dovrei parlare, a parlare però non sono tanto capace...", esordiva Tenco in una sua partecipazione televisiva nel 1966.

Al contempo, tornando all'intervista concessa a Ciotti, Tenco esternò questa urgenza comunicativa vissuta in senso conflittuale (anche come cifra delle sue canzoni e non solo mediaticamente): "Ad un certo punto potermi mettere su un palcoscenico, spiegare che cosa voglio dire con le mie canzoni, poi cantarle, per poter fare in modo di chiarire anche quei punti che forse nella canzone non sono chiari".

Uscendo dunque dal richiamo fosco del finale possiamo ben intendere come, pur con istanze specifiche e chiaramente dettate dai singoli contesti, Tenco e Di Bartolomei si collochino nei rispettivi mondi (quello della musica e quello del calcio) come voci critiche lontane da ogni ipocrisia, come pungolo costante - talvolta scomodo - alla coscienza di contesti patinati e spesso poco onesti anche nei confronti dei loro stessi protagonisti, prima esaltati e poi ripudiati.

Non si tratta (come ebbe a dire anche Ciotti dopo la morte di Tenco) del capriccio di chi non accetta un fallimento - come l'eliminazione da un Festival di Sanremo - ma della ricerca "nel modo più sbagliato e più doloroso, più impietoso verso se stesso e gli altri, della strada per raggiungere la serenità ". La necessità di sentirsi artista compiuto, libero e compreso dal pubblico oppure la volontà di portare i propri valori nel calcio, ambiente impermeabile e ineluttabilmente smemorato. Una dimensione conflittuale fatta di silenzi, di sorrisi appena accennati e di ombre che hanno dietro un mondo.