A game to play - Perché Roberto Baggio è Lucio Dalla

Lucio Dalla
Lucio Dalla / Luciano Viti/GettyImages
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Come a voler forzare le cose, volendo appioppare virtù o seguendo il vezzo di elevare qualcosa che riguarda un pallone, si parla spesso di poesia e la si insegue, provando a infilare in mezzo ai freddi numeri, alle classifiche o alle statistiche un barlume diverso, provando a trovare una luce che illumini ciò che, di base, vivrebbe ad anni luce di distanza da quella stessa poesia.

Capita poi, come seguito diretto, che cercando di alzarsi troppo si perda di vista la sostanza vera delle cose: inalberandosi nell'individuazione di ciò che sta in alto, cioè, ci si dimentica persino come mai si era partiti, ci si dimentica dei messaggi universali, di quel che tutti comprendono o meritano di capire.

Roberto Baggio
Roberto Baggio al Bologna / Getty Images/GettyImages

E qui dunque, volendo cogliere un'affinità di spirito o un tratto comune tra Roberto Baggio e Lucio Dalla, potremmo proprio rifarci a questo: la capacità innata di trasmettere quei messaggi universali, i lampi che naturalmente si offrono agli altri e diventano dunque popolari, diventano di tutti, senza star lì ad alzare steccati o mettere paletti.

Nella stessa maniera si consuma l'idea del nemico o dell'amico, del noi e del loro: lo fa in Lucio Dalla e in Roberto Baggio con l'identica capacità di appartenere a tutti, di percorrere un Paese partendo dalle metropoli fino ad arrivare alla realtà più recondita, di parlare ogni giorno un dialetto diverso, spostandosi ma restando a casa.

Lucio Dalla
Lucio Dalla / Roberto Serra - Iguana Press/GettyImages

Nessun luogo, tante radici

Rendono entrambi chiaro, e così finiscono per appartenerci, che non esiste un marchio o uno stemma specifico quando si parla del talento oppure dell'ispirazione, che non serva parlare una lingua fintamente ricercata, perdere il senso delle proprie radici ma - al contrario - sia vitale piantarne altre.

Lo possiamo capire osservando la parabola sportiva di Baggio, figliol prodigo tra Vicenza e Firenze, raccontato come "traditore" e poi perdonato nel suo passaggio alla Juve, sospeso tra la fama del fuoriclasse o quella del talento difficile da gestire, tra l'amore dei tifosi e l'insofferenza verso certi allenatori, tra l'estasi dei gol e il dolore di un rigore sbagliato in una finale dei Mondiali. Lo possiamo capire ancor di più nella riscoperta del lato migliore di sé proprio nella dimensione della provincia, senza per questo togliere valore alle giocate e alle magie.

Roberto Baggio
Il Pallone d'Oro / Alessandro Sabattini/GettyImages

E Dalla? Se Baggio è stato ed è tutt'ora, valutando la considerazione di cui gode, un campione di tutti è altrettanto vero che il cantautore ha saputo - nel corso della propria carriera artistica - abbracciare tante diverse identità, anche geografiche, rendendosi certo bolognese ma spostandosi fin dall'infanzia: Treviso, poi Roma, poi le suggestioni del jazz di Chat Baker, ma anche il sud come luogo di vacanza e poi di ispirazione, Manfredonia e le Tremiti.

Oppure anche Napoli, l'affinità musicale col capoluogo campano accanto all'amore spassionato per la città. E lo stesso Dalla, del resto, ha reso chiare queste due anime: "È stato durante queste vacanze da emigrante alla rovescia che è avvenuta in me la spaccatura tra due diversi modi di vivere. Così oggi mi ritrovo con due anime: quella nordica (ordinata, efficiente, futuribile, perfezionista, esigente verso sé e verso gli altri) e quella meridionale (disordinata, brada, sensuale, onirica, mistica). È nel sud che sono diventato religioso, di una religiosità forsennata, irrazionale, pagana" disse a L'Europeo.

Roberto Baggio
Un errore che non si dimentica / Alessandro Sabattini/GettyImages

Il richiamo spirituale

Le parole dello stesso Dalla ci permettono così di approcciare a un altro tratto di vicinanza, a un altro filo conduttore rispetto a Baggio: quello della religiosità, della trascendenza. Una spiritualità connotata in maniera diversa ma ugualmente presente e capace di permeare le identità di Dalla e di Baggio: da un lato come rapporto viscerale e profondo con Dio, come dialogo diretto (vero, violento) tra un cristiano e la divinità ravvisabile persino in pezzi come Se io fossi un Angelo o Henna, dall'altra il ruolo centrale del buddismo di Nichiren Daishonin nella vita di Baggio e in ciò che, anche al di fuori del campo, il Divin Codino, ha saputo trasmettere.

La ricerca della felicità come costante, sacrificio e disciplina come strade per migliorare, la voglia di superare i propri limiti e di imparare sempre, senza sentirsi arrivati. Due riflessi diversi della fede ma uno spazio comunque centrale, nel percorso dell'uno e dell'altro. E poi c'è l'intreccio effettivo, quello di Bologna: la città di Lucio Dalla, sì, ma anche la città in cui Baggio nel 1997/98 seppe rilanciarsi al meglio dopo un amaro addio col Milan, proprio con la maglia rossoblù tanto cara al cantautore.

Un incrocio prima calcistico, cronologicamente, e poi artistico: "Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare il rigore?" chiedeva Dalla nella sua Baggio Baggio (Luna Matana, 2001) andando ad attingere nel bagaglio dei ricordi e a pescare quello più amaro, il fardello più pesante da aggirare. Non un gran gol né una serpentina, ma un momento intimo, doloroso e potente, quello che più di tutti ti mette di fronte a te stesso: "Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare rigore? E il mignolo destro di quel portiere che è lì, è lì per parare. Meglio, sta molto meglio il pallone, tanto lo devi solo gonfiare...".


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