Si può arrivare a una narrazione più equilibrata di Gennaro Gattuso?
La necessità impellente di alimentare un aspetto epico, di rafforzare a oltranza l'idea di un "noi" contro un "loro", rafforza nel calcio la tendenza a sposare sostanzialmente due posizioni diametralmente opposte e del tutto inconciliabili: o si diventa paladini e lo si rimane oppure, al contrario, uno stigma ci segue e ci accompagna lungo la carriera e oltre, senza alcuna via d'uscita o di riscatto.
Succede per i gesti tecnici, senz'altro: puoi restare quello che segnò con una rovesciata al novantesimo o al contempo quel portiere che, con un liscio, compromise una stagione. Eroe, insomma, oppure disastro assoluto. Etichette che non si staccano e che, uscendo dal lato tecnico, diventano persino più appiccicose e ingombranti: quando al centro del discorso finiscono poi questioni delicate, aspetti come la tolleranza verso il prossimo o la visione della società ben fuori dal mondo calcio, è evidente che il rischio sia quello di derive più che mai pericolose, tali da compromettere il profilo pubblico di un uomo prima che di un personaggio pubblico (prima che di un tecnico o di un allenatore).
Il caso di Gennaro Gattuso è emblematico in questo senso, lo è stato sia con la levata di scudi social quando appariva a un passo dal Tottenham che - adesso - in ottica Valencia. Un coro di indignazione social, di hashtag e di prese di posizione granitiche che, d'altro canto, ha spinto lo stesso Gattuso a ribadire le insidie (deleterie anche per una carriera, oltre che per l'immagine) dello schizofrenico universo della rete.
Valori o minacce?
Al centro del discorso, di una visione diametralmente opposta di Gattuso nel nostro Paese oppure fuori dai nostri confini, è la stessa identità dell'ex mediano rossonero e della Nazionale: da un lato "uomo del popolo", persona dalle radici umili che ha saputo, con grinta e abnegazione, arrivare nell'Olimpo del calcio; dall'altro lato, invece, un personaggio mentalmente chiuso, persino retrogrado o reazionario, restio ad adeguarsi alle istanze sociali più basilari.
Due narrazioni del tutto differenti, che fanno scattare all'interno del tifoso di turno reazioni ovviamente diverse: da un lato - quello italiano - scatta subito la tendenza a difendere un idolo, a proteggerne la storia e il percorso, dall'altra parte invece si citano frasi ed episodi detestabili, aspetti che di fatto rendono naturale prendere le distanze da una figura percepita come poco virtuosa, poco edificante.
I valori dunque (le radici umili, l'abnegazione, la generosità in campo e fuori) trovano un contraltare del tutto dissonante (omofobia, razzismo, machismo). In questo senso un aspetto chiave, sembrerà banale, è meramente sportivo: chi ha vissuto Gattuso dalla propria parte fatica a capire le ragioni di chi lo respinge, chi invece non lo ha sentito vicino - per appartenenza o per tifoseria - riesce senza patemi d'animo a ridurlo a personaggio negativo, da tenere alla larga.
Le frasi incriminate
Di cosa si parla, però, nello dettaglio? L'atteggiamento inviso al tecnico si lega ad alcune frasi passate, connesse nello specifico a posizioni indicate come omofobe o maschiliste. Nel primo caso ci riferiamo a "Siamo nel 2008 e ognuno può fare quello che vuole. Se mi scandalizzo? Sì perché sono cresciuto credendo nei valori della famiglia e credendo nella mia religione e tutto questo (i matrimoni tra persone dello stesso sesso, ndr) mi sembra roba molto strana".
Parole pronunciate da Gattuso (ancora nelle vesti di calciatore) in vista di Italia-Spagna, Euro 2008. D'altro canto, pensando all'accusa di avere un atteggiamento machista, ci si riferisce alla frase: "Penso che per uno come Galliani bisogna avere maggior rispetto. Barbara Berlusconi? Io le donne nel calcio non le vedo molto bene, mi dispiace ma è così". Parole del 2013 mosse dalla volontà di difendere il dirigente e che, in qualche modo, sconfinarono in un territorio diverso.
C'è da dire che successivamente Gattuso, tornando sul calcio femminile, ha espresso tutta la propria soddisfazione per la crescita del movimento e non ha dunque dato seguito a quelle parole del 2013, spiegate di recente come uno sfogo più legato alla situazione di quel Milan che non alle sue idee sulla società.
Un punto d'equilibrio
Diventa dunque necessario trovare una chiave di lettura che possa permettere di entrare nel merito di quelle vecchie frasi, anche in senso critico, senza però dover rendere eterno uno stigma, senza renderlo così ingombrante da non poter essere superato.
Di fatto la retorica dell'uomo venuto dal basso può finire per diventare un mero scudo, un lasciapassare per qualsiasi uscita: come se le origini umili, di fatto, fornissero a un personaggio pubblico la possibilità di godere di una sorta di immunità perpetua agli occhi del pubblico. Rimane però altrettanto valida la necessità di separare l'elemento umano e culturale da quello sportivo: diventa difficile poter dare un timbro etico o morale a chiunque indossi una maglia, a chiunque occupi una panchina, ed è logico che si finisca necessariamente per scontentare qualcuno, andando a scavare tra dichiarazioni passate e virgolettati ormai lontani.
Non è del resto possibile pretendere totale uniformità di giudizio o immaginare che un uomo di calcio, soprattutto se ancora nel suo periodo da giocatore, si esprima in punta di fioretto o intercettando ogni istanza sociale (peraltro in tempi ben diversi da quello attuale, dalla lente offerta dal 2022 rispetto a quella di un 2008). Si può dunque sindacare sul pensiero espresso, modulando la propria simpatia verso un personaggio pubblico, ma dare e togliere una patente di allenatore eticamente puro appare - francamente - un esercizio pretestuoso e fin troppo severo verso la storia di uno sportivo.
Segui 90min su Instagram.