Le "cose di campo" non esistono più
Poniamo il caso che, in un qualsiasi frangente dell'agire umano, si possa individuare nel contesto un motivo di giustificazione delle proprie azioni. Ecco dunque che, per strada, ogni insulto sarebbe lecito e accettabile poiché - è noto - la guida è un evidente fattore di stress. Ecco che, altrettanto, dopo aver bevuto un paio di birre si potrà prendere una sedia e lanciarla contro il bancone del pub. Sono cose da pub, chiaramente, quelle di prima - del resto - erano cose di strada. Sono meccanismi di deresponsabilizzazione da cui attingiamo a piene mani, in dati contesti, e il calcio in questo senso è cattivo maestro: cose di campo, cose di spogliatoio, "cose nostre".
Un approccio che rivendica l'omertà come diritto e che la sventola come una bandiera: quel che accade qui da qui non esce, c'è un codice non scritto che ce lo impone. Un simile approccio può resistere saldamente (e lo ha fatto) in un mondo ben distante da quello attuale, in una realtà in cui nascondersi è possibile e in cui il "non detto" fa parte del gioco, senza che s'indaghi persino tra le virgole. Diventa però lampante come lo scenario odierno sia lontano anni luce da un simile retaggio: la lente d'ingrandimento è sempre lì, i riflettori si spostano con rapidità e i titoloni sottolineano frasi, foto rubate, persino uno sguardo.
Una nuova responsabilità
Non solo: il panorama attuale è ricolmo (saturo?) di messaggi, di istanze da promuovere, di interessi che s'incrociano e trovano anche nel pallone una goffa (ma popolare) via d'espressione. Il rischio della retorica e dell'ipocrisia è sempre dietro l'angolo, sappiamo bene quanto i gesti in sé siano vuoti se non vengono riempiti dal pensiero, al contempo però diventa ormai impossibile (prima che giusto o sbagliato) nascondersi dietro alle "cose di campo" e alle zone franche rispetto ai tanti richiami esterni, rispetto a ciò di cui dobbiamo dare conto.
La figura del calciatore si trova suo malgrado avvolta in questa nuova realtà, diviene opinion leader senza averlo chiesto, guida le masse senza avere una manuale che insegni come poterlo fare. Il corto circuito è evidente, la crocifissione mediatica e l'odio social sono le sue dirette parenti, ma il peccato originale - ora più che mai - non è tanto nell'errore in sé quanto nel vizio di sminuirlo, di qualificarlo come normale.
Il calcio "ad alto livello" non può più percepirsi come un mondo alieno dal resto, non può pretendere di equipararsi a ciò che fu 30 anni fa o a quello che si vive tuttora sui campetti di periferia: non è un fatto di milioni e di contratti, è un fatto di contesti che mutano e che non possono essere impermeabili rispetto alla realtà circostante, un fatto di consapevolezza e responsabilità. Non sono fardelli che si scelgono, non sempre, ma quando capitano non è più possibile eluderli o chiedere al mondo di guardare altrove.