Cosa significa essere "giovani" nel calcio?

Federico Chiesa
Federico Chiesa / Marco Canoniero/Getty Images
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Il 6 luglio del 1995, in una giornata calda e a tratti surreale, la Juventus comunica la cessione di Roberto Baggio al Milan per 20 miliardi di lire. 28 anni, Pallone d'Oro ed eroe nazionale, il Divin Codino viene lasciato andare dai neo-campioni d'Italia per una cifra tutto sommato dignitosa ma che non rende forse giustizia al valore del giocatore.

Si disse che una delle cause per cui Baggio lasciò la Juve fu Marcello Lippi (cosa smentita dal diretto interessato). Certamente, una fu la crescita di Alessandro Del Piero, allora ventenne, che quella stagione la comincerà da titolare nel tridente con Vialli e Ravanelli.

Quanto sarebbe possibile oggi immaginare una scelta di questo tipo da parte di una società di Serie A, al di là della stessa Juventus, è difficile dirlo. Così come forse è troppo presto per dire quali siano i casi in cui un "giovane" meriti di diventare titolare ad alti livelli, partendo dal presupposto che di fenomeni nel senso anche numerico del termine ne nascono pochi.

Prendiamo ad esempio gli ultimi due casi di giocatori oggettivamente forti, protagonisti loro malgrado delle polemiche sollevate dalle dichiarazioni del tecnico bianconero Allegri.

Fa un po' strano pensare che oggi de Ligt (22 anni, 268 presenze fra i professionisti incluso la primavera ed escludendo le nazionali, 26 gol e 13 assist) e Chiesa (24 anni, 239 presenze, 59 gol e 39 assist) siano messi in discussione in termini "anagrafici" dal loro allenatore, al di là delle caratteristiche tecniche e tattiche, se non altro perché entrambi hanno per motivi diversi avuto modo di giocare già ad altissimi livelli.

Posto che non si finisce mai di imparare, pensare che due giocatori che hanno alle spalle diverse stagioni da top, oltre che almeno un grande torneo per nazionali debbano "imparare" qualcosa per sostenere la maglia della Juventus è oggettivamente difficile da comprendere. Per dire, a 17 anni e 285 giorni de Ligt gioca la sua prima finale europea. Si dirà: "L'ha anche persa". Vero, però non si può dire che non abbia maturato un'esperienza sostanziosa.

E allora la domanda è: "Quando si smette di essere giovani?", e nel caso della Juventus ed estendendo il discorso del calcio italiano, quando questo titolo si può considerare sostituibile in favore di un più rassicurante "esperto", al di là delle partite giocate?

Matthijs de Ligt
Matthijs de Ligt / Daniele Badolato - Juventus FC/Getty Images

Qui entra in scena l'intreccio puntuale con la visione del tecnico, in questo caso Allegri, che non ha mai nascosto la sua vocazione verso un calcio meno propositivo e più speculativo: l'idea di un risultato che si difenda, il famoso corto muso, sembra trovare il suo apogeo con un 11 che sia basato su caratteristiche più caratteriali che tecniche. Quasi che un trentenne non abbia timore di scagliare la palla in tribuna a partire dal sessantesimo in avanti, quando l'inerzia della partita magari ti rema contro.

L'urgenza della Juventus di tornare a vincere consegna il progetto tecnico alla necessità di raccogliere punti in qualsiasi maniera, affidandosi a scorciatoie dove anche il più talentuoso dei calciatori si debba necessariamente piegare a un disegno che punta a massimizzare il risultato con il minimo sforzo tattico.

I giovani, però, per definizione hanno bisogno di crescere in contesti che ne esaltino le qualità, permettendo loro di limare i propri difetti: cosa che può capitare dopo un'attenta valutazione della rosa e una gestione che miri a esaltare il profilo di ognuno, e che talvolta richiede tempo.

Quando Conte arriva alla Juventus, per esempio, Leonardo Bonucci ha 23 anni ed è reduce da una stagione in chiaro-scuro con Delneri. Chiellini ne ha 26 e sta completando la sua evoluzione da terzino sinistro "di sostanza" a marcatore di caratura mondiale. Barzagli è un ventinovenne arrivato a buon mercato nel mercato di riparazione 2011, reduce da un'esperienza mediamente positiva in Germania.

Con gli attuali criteri, il primo sarebbe stato panchinato in virtù della minore età rispetto ai colleghi: come sappiamo, non fu così e da quell'anno Bonucci diventerà perno inamovibile dei bianconeri e della nazionale, grazie anche a un'intuizione del tecnico che sceglie di non rinunciare a nessuno dei suoi difensori.

Leonardo Bonucci, Giorgio Chiellini
Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini / Daniele Badolato - Juventus FC/Getty Images

Lo stesso Conte farà poi con Pogba, arrivato dal Manchester United poco più che diciannovenne a parametro zero e nell'arco di un trimestre diventato inamovibile del centrocampo bianconero: un passaggio dall'anonimato alle stelle che forse neanche Alex Ferguson avrebbe saputo prevedere.

Al di là di Allegri e delle problematiche che si registrano in casa Juve, Il dubbio che si ha è che sia il movimento italiano ad avere difficoltà con l'inserimento dei "giovani", approvando una gestione che sembra normalizzare il talento e non esploderlo.

Quanto può ispirare un giocatore nel pieno della sua crescita un modello di questo genere è complesso a dirsi.

I ragazzi che oggi si affacciano al calcio sognando il professionismo hanno vissuto epoche connotate da squadre la cui vocazione principale non era la semplice vittoria, ma la necessità di differenziarsi generando qualcosa di nuovo.

Tanto per capirci: un 2000 che si è avvicinato al calcio in età scolare ha vissuto sulla sua pelle le vittorie del Barcellona di Guardiola e della Spagna di Aragonés e del Bosque, il Mineirazo con i mitologici 7 gol al Brasile della Germania più sfavillante degli ultimi trent'anni, il triennio di vittorie europee consecutive del Real Madrid di Cristiano Ronaldo e, per finire, l'innovativo gegenpressing di Jürgen Klopp con il Borussia Dortmund e il Liverpool dei record.

Jude Bellingham
Jude Bellingham / Matthias Hangst/Getty Images

Squadre che in un modo o nell'altro sono entrate nella storia non solo perché hanno vinto, ma perché hanno lasciato un'impronta che ha saputo ispirare il movimento, proponendo alcune delle innovazioni più importanti degli ultimi decenni.

Cosa ancor più importante, questo è capitato un po' in tutta Europa: dall'Inghilterra alla Germania fino alla Spagna, solo per citare i campionati più importanti.

In Serie A questa trasformazione, come racconta egregiamente Emanuele Batazzi nel suo
"Calcio liquido - L'Evoluzione tattica della Serie A", è stata veicolata principalmente da tecnici considerati "di provincia", come De Zerbi o Di Francesco, o meno appealing come Maurizio Sarri. Tentativi che però non hanno ancora saputo lasciare il segno fino in fondo (tant'è che i "laboratori" rimangono squadre tradizionalmente considerate di media borghesia come Fiorentina e Roma, o neopromosse come lo Spezia di Vincenzo Italiano), che si sono sfaldati perché incapaci di affermarsi sul medio/lungo periodo o che non sono stati premiati dall'elité, per usare un termine molto in voga.
Situazioni di transizione o di partenza, comunque, e non top club che aspirano a vincere in Italia e in Europa.

E qui si torna alla Juventus. La vision allegriana nel proporre un calcio "meno di lotta e più di governo", che affonda il suo credo nel risultatismo più concreto forte anche dei trofei conseguiti nel suo primo ciclo bianconero, sembra cozzare non tanto con una presunta superiorità tattica di altre scuole e correnti, quando con un preciso tratto somatico di quelli che saranno i calciatori più forti di domani (e un po', già di oggi), che per forza di cose sono di minima under 24.

Rimanendo al mondo bianconero, richiamando Allegri la Juventus sembra aver ceduto alla necessità di una restaurazione generale che cozza con i proclami di una progettualità "dei giovani" (qualsiasi cosa significhi questa parola, che come abbiamo visto ha un significato veramente troppo aleatorio), al passo con un trend più europeo e moderno del gioco che invece comincia a mettere al centro profili meno convenzionali e agé (Mbappé, Håland, Foden, Saka, Bellingham, Mount, Ansu Fati, Camavinga, Donnarumma, solo per citare i più noti).

Il dubbio che sovviene, leggendo questi nomi, è come potrebbero coesistere profili così in una modellizzazione tanto urgente.

È come se la Juventus in questo momento storico non sia in grado di staccarsi da un certo modo di intendere il calcio. Fa pensare che sia lo stesso Federico Cherubini a dichiarare a TuttoSport che proprio Håland sia un rimpianto per la logica tutta italiana di impostare il percorso di crescita secondo un approccio depotenziato, con il cammino nelle serie minori propedeutico per aspirare a qualcosa di più.

Vero che in quel momento il norvegese giocava nel Molde ed era molto giovane, ma è anche vero che la Juve non riuscirà a chiudere l'operazione anche quando Håland passerà dal Salisburgo al Borussia Dortmund: le motivazioni che porteranno Raiola a non definire l'accordo con Paratici saranno legate ancora una volta al percorso di crescita prospettato dalla Juventus. Sostanzialmente, anche in quell'occasione alla società sembrava fosse necessaria una controprova in più per misurare il talento del ragazzo (già ampiamente messo in mostra).

C'è da dire che non tutte le società sembrano allineate a quest'approccio. Il Milan, con la sua età media assestata a 25 anni (terza in Serie A), è un esempio di progettualità incentrata sulla coltivazione del talento, a costo di rinunciare a competere da subito per vincere: vedremo se questo sarà l'anno buono.

Certo, al talento va affiancata l'esperienza e la qualità di giocatori più esperti: ma solo l'alchimia fra queste due anime può portare al risultato.

L'Italia di Mancini è il caso più eclatante: attorno ad alcuni imprescindibili totem come Bonucci e Chiellini l'allenatore di Jesi ha saputo costruire una squadra che, partendo da un disegno tattico preciso e moderno, si è affermata, vincendo e dando modo anche ai più "giovani" (nel senso, passateci il termine, allegriano del termine) di esprimersi ad alti livelli.

Insomma, il calcio di oggi non sembra voler abdicare all'idea che ci sia un'età giusta per diventare decisivi: semmai, per ogni età c'è un contesto in grado di valorizzare il talento.

Perché ci sarà sempre il caso in cui una società potrebbe scegliere di fare a meno di un Pallone d'Oro nel pieno della carriera per far posto a una scommessa dal futuro più che promettente: la sensazione è che vuoi per i costi, vuoi per ciò che sta diventando il calcio, la scelta propenderà sempre più per la scommessa.

A pensarci bene, potrebbe essere la volta buona che tornino in auge le bandiere. Una roba alla fine poi non tanto male.