Il calciatore che non voleva esserlo: Borja Valero e l'antidoto per l'ipocrisia
Possiamo serenamente ammetterlo: si sente parlare più spesso di Borja Valero oggi che non nelle sue ultime tappe come calciatore professionista. Lo scorso anno lo spagnolo viveva l'ultimo atto dell'esperienza ad alti livelli, tutto sommato sotto silenzio, mentre le svolte segnate da questo suo 2021 lo hanno riportato al centro del discorso, seppure non siano passaggi illuminanti o giocate di fino a proiettarlo di nuovo sotto i riflettori. O meglio, quelle giocate hanno variato sede ma continuano a sorprendere oltre il terreno verde: non tanto l'esperienza da opinionista a DAZN, soluzione ormai consueta per gli ex protagonisti di Serie A, quanto la scelta di vivere un'avventura del tutto particolare fuori dal calcio professionistico, in Promozione, con la maglia del Centro Storico Lebowski. Una svolta che si lega a doppio filo, del resto, alle ultime parole dello spagnolo a La Repubbica, dichiarazioni destinate (e lo hanno già fatto) a scatenare una prevedibile ridda di polemiche, niente di provocatorio nelle intenzioni (del resto sarebbe fuori dal personaggio) ma probabilmente controverso negli effetti.
"Facile dirlo..."
Non è la prima volta che un calciatore ridiscute il fatto di essere tale, non è inedita in sostanza una forma di "denuncia" di chi scorge nel mondo del calcio professionistico tratti tali da generare insofferenza, malumore e (udite udite) sacrificio. La storia è nota: una gioventù spesa sul campo e non sulle panchine ai giardinetti, vissuta tra allenamenti e trasferte anziché dietro a qualche cottarella, a evitare d'inciampare nelle tante tentazioni che un atleta, anche se ancora in divenire, deve tenere alla larga da sé. Ecco dunque che certi pensieri trovano una nuova voce: "Rifarei il calciatore? Se mi faccio questa domanda adesso forse non lo rifarei, non so se ne varrebbe ancora la pena. Grazie al calcio ho una bella vita, ma magari sarei stato bene anche senza fare il calciatore". Il calcio come fonte di fortuna dunque, di esperienze da ricordare e di benessere, ma anche come amico infido e pronto a voltarti le spalle, tra gli interessi del procuratore di turno e le critiche velenose di chi non riconosce il tuo impegno. Una presa di posizione che presta il fianco al consueto coro, fin troppo prevedibile, di chi vede infelicità e frustrazione come esclusive di chi guadagna poco: sei ricco e giochi a calcio, non hai il diritto di mostrare tracce di insicurezza o fragilità, il discorso finisce così.
Bomber o...no
Del resto è anche vero che, a livello mediatico, la figura del calciatore viene spesso associata a immagini che fanno dell'ostentazione e della ricchezza il loro fulcro, tanto da generare un certo stupore quando il giocatore di turno si azzarda a spostare il discorso, a portarlo su un piano meno patinato. Sei lì con fiumi di champagne che scorrono, nel pieno delle tue vacanze alle Maldive e osi fare il sostenuto? Non seguire l'onda dell'entusiasmo? Questo lusso non puoi permettertelo, devi goderti la vita e zitto, altrimenti disturbi chi si sveglia presto e con gli occhi ancora semichiusi si butta in metropolitane puzzolenti o prende residenza nel traffico intasato. Un giochino che si ripete a oltranza con buona pace di quei calciatori che da sempre rifuggono, non con intenzione ma in modo naturale, l'etichetta del "bomberone" da idolatrare, della macchina da soldi che macina storielle gossippare e poi si proietta nello star system come figlio diretto del pallone. Una dinamica un po' sterile per quanto comune, che ci induce a dimenticare che la fonte dei guadagni più o meno lauti o il modo di mettersi qualcosa in tasca non possa in assoluto qualificarci, senza i necessari distinguo di umanità.
Effetto Lebowski
Proprio in questo solco, ad anni luce dal suddetto luccicante bomberismo, si colloca il nuovo capitolo della vita calcistica di Borja Valero: forse la sua vera vita calcistica, per tanti versi, considerando anche quanto affermato nella recente intervista. Lo spagnolo non è il primo e non sarà l'ultimo, tra i calciatori, a scendere nei dilettanti ma, di certo, fa impressione scorrere tra le tappe della sua carriera e scoprire un surreale Real Madrid, Villarreal, Fiorentina, Inter, di nuovo Fiorentina, e infine CS Lebowski. Un viaggio verso realtà parallele, di fatto, più che un'avventura trovata sul viale del tramonto. Intrecci di senso e di visione delle cose, dove la natura comunitaria e solidale di quella particolare realtà (su cui ci siamo già soffermati) si rivela uno specchio coerente e sensato rispetto a quel che Borja ha sempre visto nel calcio: "Ma ricordo cose anche belle ovviamente, come le trasferte e i racconti dei giocatori veterani. Ricordo tanto divertimento". Una visione che qualcuno potrebbe accostare a un romanticismo posticcio e borghese, a uno specchietto per le allodole coi milioni nascosti dietro, ma a ragion veduta (attraverso il percorso di Borja negli anni) risulta difficile trovare oggi un angolo di ipocrisia in un simile epilogo.
L'antidoto per l'ipocrisia
Una coerenza che passa dalla carriera di un calciatore che, come altri in passato, ha rivendicato e rivendica il diritto di "essere altro". Si ripensi a un Cantona che si riteneva artista prestato al pallone, in attesa di riabbracciare la sua vera natura. Non esistono conti in banca in grado di porre un freno al naturale richiamo di una vita, per quanto sia complesso capirlo, e il filo conduttore di una carriera e di un'esistenza supera di fatto la possibilità di un giudizio speso di fretta, con le dita che scorrono su uno smartphone, tra un meme e una tipa in costume. L'antidoto all'ipocrisia vive dunque nei fatti, nel caso di Borja Valero si esprime nella sua nuova vita "più che calcistica", nel suo diventare di casa in un posto straniero, nella semplice quotidianità che supera il lusso.
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