Una realtà da affrontare e un equilibrio spostato: cosa ci resta del mercato?
Sarebbe tutto infinitamente banale se ci limitassimo a scendere in piazza e a suonare i clacson per uno Scudetto vinto, per una promozione in Serie A, per un traguardo insperato che diventa reale. Sarebbe prevedibile e, così, ci spostiamo su un piano diverso e lo coltiviamo con attenzione: la gioia vera, quella più incontenibile, deriva dal gusto inarrivabile delle disgrazie altrui, deriva dalla logica dello sfottò non più connessa ai risultati (che roba vecchia) ma alle vicissitudini societarie, alle sventure di mercato e agli intoppi lontani dal campo.
Ecco così che un tifoso dell'Inter potrà rivendicare con gusto lo sgambetto ai danni del Milan, fatto a suo tempo con Calhanoglu, e un rossonero potrà rispondere orgogliosamente, con aria compiaciuta, che Skrniar sta seguendo l'esempio di Donnarumma, tradendo l'amore dei propri tifosi e voltando loro le spalle, abbagliato dal richiamo del PSG.
Al contempo, sulla sponda biancoceleste della Capitale, qualcuno avrà modo di sfregarsi le mani per il caso Zaniolo che sta turbando la Roma, per questa voglia di fuga da Trigoria emersa in maniera così dirompente. Il tutto, impossibile negarlo, mentre un coro multicolore si rivolge in direzione bianconera e sogna nuove intercettazioni, attaccando al muro il poster di un PM e provando in solitaria - con una calcolatrice - a replicare bilanci per scovare una nuova e grave magagna.
Il tempo di affrontare la realtà
Superando il dominio del campo, nella distrazione collettiva, si perde di vista l'unica realtà dirompente a cui probabilmente dobbiamo abituarci, nei nostri deliri di grandezza e nel desiderio infantile di rivalsa sul vicino di casa: l'Italia del calcio è una realtà di mezzo, una terra che si colloca esattamente a metà tra i campionati confinati al di fuori dai radar e quelli che, invece, stanno beatamente in cima alla catena alimentare.
Divorandoci rabbiosamente tra di noi non stacchiamo lo sguardo da un orizzonte vicino e non vediamo ciò che, più in alto, ci inghiotte. Un quadro già drammatico in sé, anche al di là dell'abisso rispetto alla Premier League, che trova un accento evidente in una posizione del singolo calciatore divenuta via via predominante, in un equilibrio sempre più spostato sul singolo atleta (come azienda) che vede nel collettivo un semplice momento contingente, una zanzara fastidiosa.
Lo squilibrio nasce nel momento in cui i due estremi si distanziano ogni giorno di più: da un lato c'è chi resta anacronisticamente aggrappato all'idea di calcio come sport di squadra, dall'altro c'è chi coltiva se stesso, la propria ambizione (legittima nella sostanza, non sempre però nella sua traduzione pratica).
Un corto circuito certo non inedito, acuito però - come detto - da un ruolo predominante di agenti e intermediari rispetto a quello che, perlomeno in linea teorica, sarebbe il peso di un accordo contrattuale. Non è un caso che, non da oggi, si parli di "contratti che si avviano alla scadenza" già quando mancano due anni all'effettiva conclusione di un accordo: il caso di Vlahovic lo scorso anno era emblematico ma lo è, ancor di più, quello legato adesso a Zaniolo.
Il nodo non è l'ambizione
Non si tratta più di ridiscutere un accordo quando questo si avvia a conclusione ma, a conti fatti, ciò che è stabilito da una firma diventa immediatamente fluido, oggetto di discussione e trattativa, al centro di un braccio di ferro perpetuo. Corto circuito, appunto, poiché causa di un ulteriore distacco tra la "bolla" del pallone e il mondo che la include, uno strappo complesso da ricucire che finisce per coinvolgere le proprietà, le istituzioni calcistiche e il sistema in senso più profondo (tifosi compresi).
L'idea romantica e battagliera di presidenti pronti a fare le barricate, a chiudere il talento capriccioso di turno in una gabbia dorata, fa presa sui tifosi ma non riesce a tamponare efficacemente la deriva. Non si tratta della deriva dell'ambizione, logica e apprezzabile in una dinamica di miglioramento, ma del fraintendimento fatale per il quale un giocatore si senta in diritto di saltare allenamenti, si senta tenuto a restare negli uffici di un agente anziché agli ordini di un tecnico.
Il tutto reso ancor più grottesco e ingestibile, mediaticamente, da un ruolo sempre più cruciale dei social come vetrina (spesso in modo superficiale e avventato) e da una comunicazione lasciata in mano, anarchicamente, a chi non ha ben chiare le conseguenze di parole dette male. Una dinamica del tutto deliberata e informale in mezzo a un mondo di cavilli e firme, qualcosa da riformulare e da gestire (dall'alto) per evitare che gli scricchiolii già evidenti degenerino, per evitare che il giocattolo si rompa definitivamente o non somigli più a sé.