Togliere la polvere dalle bandiere e finalmente capirle: cosa insegna Paolo Maldini
Che Paolo Maldini avesse da insegnare qualcosa sul campo non lo scopriamo oggi. Le qualità umane sono del resto una questione che prescinde dal pallone, che avrebbe insomma trovato il verso di emergere in altri contesti anche se fuori dalle luci della ribalta, ma è evidente che educazione e rispetto (costruite in maniera certosina nei decenni) abbiano trovato una cassa di risonanza nell'intreccio con storie sportive e personali di primo piano.
Partire per un'avventura con l'iniziale benedizione di Liedholm ha già il sapore di un marchio, espresso anche a parole dal Barone nel 1985, così come un marchio (potenzialmente ingombrante) è un cognome già legato in profondità alla storia del Milan. E se esiste una strada per emanciparsi dal retaggio di un nome importante, è evidente, le qualità umane non possono che tracciarla, accompagnando quelle atletiche e tecniche. Quel che certo affascina è il viaggio nel tempo, dal 1985 al 2009 come calciatore, che ha visto Maldini sfogliare un album di fotografie per certi versi schizofrenico, come un turbine che ci consegna immagini di mondi diversi: vale per il Milan, al di là del punto fermo rappresentato dalla proprietà Berlusconi, vale per l'Italia del calcio e vale, in modo ancor più forte, per l'ecosistema in cui il calcio vive ed esiste, per una società che ha cambiato in 24 anni colori, connotati e linguaggi.
Assorbire pezzi di sport e di vita, in un percorso lungo 24 anni, forgia di per sé esperienza e conoscenze, se poi il percorso di dipana nell'ambito di un club come il Milan l'insegnamento ricavato non può che amplificarsi: tanti pezzi di un puzzle che, di fatto, compongono il senso della parola "bandiera". La bandiera come croce e delizia poi, come moto d'orgoglio ma anche come tasto dolente: e non si parla soltanto di quell'addio tanto discusso, con la standing ovation del Franchi e qualche sparuto mugugno all'interno del suo mondo, quello rossonero, ma ci si riferisce anche a una faccenda che proprio attorno al Franchi, oggi, si svolge.
Un continuo dualismo tra identità di club ed ego di una bandiera, Giancarlo Antognoni pensando alla Fiorentina, che vede contrapporsi la logica del cuore alle mere logiche organizzative e di gestione di una società. Ma, il punto è, ci si chiede mai quel che una bandiera vorrebbe essere? L'insegnamento di Maldini procede su questo solco, lo fa oggi più che mai: non un vessillo pieno di polvere da tenere esposto sul balcone, magari vessato e rovinato dalle intemperie, ma un punto fermo, un concentrato di qualità umane e di esperienza sportiva in grado di condizionare attivamente le sorti di un club, del proprio club. Anche la gestione dei casi Donnarumma e Calhanoglu (in minor misura), ponendo il discorso identitario al di sopra di logiche diverse e dei malumori da sedare, ha cristallizzato il peso di un ruolo, quello di direttore tecnico, che si distanzia dal vuoto clamore di un vecchio cimelio da preservare, come un prezioso oggetto della nonna che ti sei ritrovato in casa e che non sai esattamente dove mettere.
Maldini aveva da insegnare sul campo, sì, ma oggi spiega anche altro e ci propone un monito: identità e storia non possono tradursi in un retorico rispetto per il passato, hanno bisogno di fiducia, di proiezione sul domani, di responsabilità reali: per togliere la polvere e ridare colore alle bandiere.