La Superlega può diventare davvero l'NBA del calcio europeo?
La creazione della Superlega annunciata dai 12 club fondatori ha scosso il mondo del calcio nel profondo, creando spaccature difficili da ricomporre e gettando le basi per mesi di discussioni e contrattazioni tra le parti, senza escludere battaglie in sede legale. Un terremoto vero e proprio che, come ragionevole e logico, ha scatenato reazioni forti da parte di tifosi e addetti ai lavori: in particolare fa discutere la limitazione pesante al criterio meritocratico che sta alla base della nostra concezione di competizione sportiva. Una levata di scudi importante, anche a livello istituzionale, che potrebbe anche rivelarsi vana di fronte alla forza economica dei club e di chi finanzia il progetto Superlega senza contare che, d'altro canto, non mancano i sostenitori di questo nuovo corso del calcio europeo e non mancano soprattutto riferimenti ad altri sport e competizioni che fanno da faro: la NBA in primis.
La bandiera dell'NBA viene dunque sventolata in faccia a chi si pone come critico rispetto alla bufera Superlega: si sostiene, cioè, che rendere stabile il confronto tra l'élite del calcio europeo sia una scelta di evoluzione naturale verso uno spettacolo globale, moderno, in linea con le richieste di un mercato sempre più vasto. Una posizione, questa, che può valere appunto come bandiera da sventolare a priori ma che manca di profondità e non considera (consapevolmente o meno, non ci è dato saperlo) l'abisso che separa il panorama sportivo europeo, a livello professionistico, rispetto a quel che accade oltreoceano.
Il paragone reggerebbe, insomma, se l'NBA al momento della sua nascita fosse andata a pescare le eccellenze dei vari Stati e le avesse unite in una sorta di torneo dei migliori, ma così non fu. Di fatto l'NBA, col suo sistema, andò a istituire e a fondare il basket americano a livello professionistico, trovando alla base radici infinitamente meno forti e profonde di quelle presenti (ormai da decenni) nel panorama calcistico europeo. Un panorama fatto di identità locali ben specifiche e radicate, aspetto che del resto potrebbe riguardare un paragone anche extra sportivo per chi volesse importare qui modelli validi dall'altra parte dell'oceano: un punto fondamentale, dunque, è quello dell'identità. La Superlega volta le spalle alla storia e non la raccoglie, non si pone in continuità ma le dà una spallata in nome di una crescita esclusivamente economica mascherata beffardamente da altro. Dovremmo in sostanza ricreare un sistema identitario internazionale, rinunciando (o mettendo in secondo piano) quel mondo di rivalità, di sogni e di speranze coltivato per oltre un secolo.
Assieme al discorso identitario esiste poi un fattore ancor più urgente, quello della competizione sportiva e del merito da rincorrere sul campo: il mondo del calcio europeo non si fonda sulle franchigie, come quello statunitense, e prevede da sempre la possibilità di essere promossi e retrocessi, di ambire potenzialmente al successo pur senza averne i mezzi economici dei club più potenti. Il panorama NBA poi, dato che di NBA si vuol parlare per giustificare la neonata Superlega, prevederebbe aspetti del tutto peculiari e alieni nel nostro calcio professionistico: il draft, il sistema di controllo salariale delle franchigie partecipanti, l'assenza di altre realtà professionistiche in conflitto (come invece sarebbe in Europa).
E come potrebbero porsi, dunque, i vari sistemi nazionali? I campionati diventerebbero una mera riserva di talenti per le big vere e proprie e sarebbero destinati a soccombere? Con quali motivazioni un calciatore potrebbe aspirare a condurre una carriera in un contesto limitato, potendo invece puntare al gotha sportivo ed economico del pallone? Le spaccature potenziali sono infinite e i nodi verranno tutti al pettine insieme alle contraddizioni: UEFA e FIFA stanno forse scontando la forza di un karma appesantito da scandali e scelte discutibili, questo è lecito sostenerlo, ma andare a scomodare realtà distanti anni luce appare quantomeno pretestuoso, un atto di propaganda più che di pianificazione del reale futuro di uno sport che muove sì tanti soldi, senz'altro, ma che ci riguarda profondamente anche a livello emotivo, sociale e culturale.
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