Quando Ibrahimovic era finito: caduta e ritorno di chi non conosce sconfitta
Se alle orecchie di Zlatan Ibrahimovic dovesse arrivare un sussurro, una voce, che lo dà per vinto e ormai in declino probabilmente non seguirebbero grida sguaiate, una rabbia scomposta, non darebbe insomma in escandescenze. Per certi versi, considerando la percezione che Ibra ha di se stesso, sarebbe come se sentisse un passante dire "oh, è finito il cielo", parole nonsense che danno per concluso qualcosa che, per sua natura, non può esaurirsi. Adesso sembra tutto logico e normale, basta guardare i numeri della stagione in corso con la maglia del Milan per avere la dimensione chiara del discorso, ma qualche anno fa questo anelito di immortalità sportiva ha trovato intoppi e momenti di stanca, qualcuno avrà faticato a trattenere un sorriso di fronte alle farneticanti voglie di un campione ormai più che maturo.
Qualche dubbio, ad esempio, emerse proprio quando Ibrahimovic tentò per la prima volta l'avventura in Premier League, al Manchester United guidato da Mourinho nella stagione 2016/17. Era difficile pensare che lo svedese si esimesse dal misurarsi con un altro dei campionati più importanti, il più ricco senz'altro e con maggiore tradizione, i Red Devils in tal senso rappresentavano la via maestra: un club storico, dal nome affascinante, con un passato fatto di campioni e trofei. Tutti ingredienti che, di certo, motivano Ibra (che non ne ha mai fatto un mistero). E l'inizio fu da colpo di fulmine, un idillio a tutti gli effetti: gli ingredienti che sulla carta potevano attrarre Ibra lo stregarono sul serio, a loro volta gli esigenti tifosi dello United ricambiavano a pieno, l'intesa e la stima profonda con Mourinho fecero il resto e diedero una spinta ulteriore a questo binomio. Osservando a posteriori quanto accaduto in quella stagione, in casa Red Devils, il bilancio non può che essere positivo: vittoria in Community Shield, in Europa League e in Coppa di Lega, 28 gol messi a segno dallo svedese tra le varie competizioni.
Eppure, proprio alla fine di una stagione da sogno, si rischiò di piombare nell'incubo vero: quarti di finale di Europa League con l'Anderlecht, 20 aprile 2017, un infortunio apparso immediatamente preoccupante diede poi il responso temuto. Rottura del legamento crociato, 8 mesi di stop necessari: per tanti il discorso era chiaro, la carriera di Ibrahimovic di fatto era a rischio o persino finita. Lì, insomma, esistevano dei dati fisiologici che come minimo potevano portare anche l'estimatore più convinto a coltivare qualche dubbio, a dare una pacca sulla spalla alla volontà di Ibra di tornare "più forte di prima". E qui subentra poi lo scetticismo successivo: dopo un'altra stagione a mezzo servizio con lo United lo stesso Mourinho, commentando l'approdo dello svedese in MLS, espresse più di una perplessità sul possibile futuro strettamente sportivo di Ibra. Andrà ad esportare calcio di qualità dove ne hanno sempre visto poco, pensarono in tanti, Special One compreso.
Allora sembrava scontato vederla così, difficile biasimare quello scetticismo, ma nel complesso c'è qualcosa che va oltre i gol segnati al Milan dopo il ritorno, a 39 anni suonati. C'è sempre stato un perverso bisogno di caricarsi a molla con le difficoltà, di galvanizzarsi quando tutti ti guardano storto. Ci fu per esempio una serata al Franchi, nell'ormai lontano aprile del 2005: Fiorentina e Juventus se le davano di santa ragione, fu uno spettacolare 3-3, e in campo c'era un lungagnone spigoloso e aggressivo su cui piovevano fischi. Lui però li assorbiva, più saliva il volume contro di lui e più si caricava: segnò una doppietta e zittì lo stadio. Erano già dei messaggi: può succedere qualsiasi cosa ma Ibra troverà comunque la strada per rispondere, troverà il modo di vivere le difficoltà (per gli altri) come bonus di motivazione.
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