La psicosi degli esuberi nel calcio: "problema mondiale" dai risvolti social
Capita talvolta che fattori tra loro distinti finiscano per collidere in modo accidentale, generando qualcosa di simile alla proverbiale tempesta perfetta e facendo reciprocamente sponda, fenomeni slegati che insomma si incrociano e producono qualcosa di inedito. Si tratta qui di due derive separate che si stanno sempre più stesso incontrando, in modo anche distruttivo, andando a inquinare un elemento base della magia del calcio, il rapporto cioè tra tifoso e calciatore. Si è visto e sentito bene, in tempi di pandemia, quanto il silenzio di uno stadio possa inficiare sullo spettacolo, si sta assistendo solo adesso al ritorno di suoni e colori vitali per dare un senso compiuto all'evento-partita.
Un'assenza fisica che, in modo inversamente proporzionale, è stata seguita da un brusio virtuale sempre più rumoroso e amplificato, come se la piazza si fosse realmente spostata altrove, un surrogato del coro o del fischio. Un crescendo legato ovviamente a una diffusione sempre più capillare dei social e a una loro presenza sempre più ingombrante della quotidianità, del tifoso come dello sportivo, senza alla base un'educazione sull'utilizzo del social stesso come spazio quotidiano di condivisione anziché come sede ideale per esprimere frustrazioni e provocazioni, con la maschera protettiva dell'anonimato o di uno sterile username. Una questione che ha trasceso da tempo la mera analisi di nicchia, diventando pane quotidiano per uno sportivo di alto livello: nel Regno Unito la faccenda si sta rivelando particolarmente sentita oltre che grave, gli insulti razzisti in occasione di Euro 2020 hanno rappresentato una deriva discussa anche al di fuori dei confini inglesi e non mancano perciò iniziative di sensibilizzazione in tal senso, battaglia abbracciata in Italia proprio da un inglese come il giallorosso Smalling.
La questione dell'odio rovesciato sul calciatore di turno sui social, col passaggio da idolo a bersaglio in un vortice distruttivo di rabbia e invidia, si incrocia dunque (ora più che mai) con un tema apparentemente distante ma pronto a prendersi la scena: quello degli esuberi. Tiago Pinto, direttore sportivo della Roma, lo ha definito "un problema mondiale", sottolineando quanto sia ormai consueto trovarsi in casa un gruppo di giocatori fuori dal progetto ma ugualmente stipendiati e pronti a reclamare uno spazio, tanto da impedire che il pensiero corra a nuovi acquisti e investimenti sul mercato in entrata. La crisi economica amplificata dalla pandemia ha impedito a tanti di far finta di niente, accelerando i tempi dell'arrivo di un conto salato, il sistema calcio lo sta capendo a chiare lettere e il discorso esuberi si inserisce anche in un quadro del genere: non si può più investire, i giocatori restano dove sono e lo stallo è servito, con poche vie d'uscita residue.
Restando in casa giallorossa, dopo aver citato Tiago Pinto, emergono esempi efficaci dell'incrocio infelice tra odio social e questione esuberi: elementi come Javier Pastore o Amadou Diawara lo stanno sperimentando direttamente, il secondo anche al di fuori dei social, a Trigoria, ha incontrato chi lo "invitava" ad andarsene. Tornando agli spazi virtuali basta aprire i profili social dei giocatori non ritenuti più vitali per un progetto e si scopre un mondo fatto di "vattene parassita", "te ne devi andare parassita maledetto", "magari muore st'infame", "ti auguro una vita piena di sofferenze familiari e lavorative". Ci si mantiene su questo tono, con rare eccezioni. Che si resti sul social o si sfoci nel confronto diretto resta evidente un fatto: sentirsi autorizzati a farlo poiché si ha davanti qualcuno che prende uno stipendio importante, inutile girarci attorno. In sostanza la dignità e il senso del limite si farebbero da parte col tintinnare dei milioni, aprendo autostrade di odio prive di coscienza.
I cori d'incitamento rivolti a Samu Castillejo, dalla curva rossonera, aiutano a ritrovare il filo del discorso e a confidare nella possibilità di confinare la questione al mondo del virtuale, resta però da fissare un punto e da sviluppare con attenzione un'etica del tifo sui social. Iniziative di sensibilizzazione, incontri aperti ai tifosi e una maggiore trattazione del tema a livello mediatico potrebbero gradualmente intaccare il senso di impunità, insieme ovviamente a misure che facciano sentire meno protetto chi, nascosto dietro a un avatar, mostra i muscoli e fa la voce grossa, entrando a gamba tesa nella vita delle persone.