Perché un calcio meno popolare non è colpa del Cholismo

Diego Simeone
Diego Simeone / Alex Caparros/GettyImages
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Esiste una corrente di pensiero, sempre più rumorosa e visibile, che associa la problematica (vera o presunta) dello scarso appeal del calcio moderno, problematica del resto denunciata anche da Andrea Agnelli in sede di presentazione della Superlega, a colpe e responsabilità degli stessi interpreti del mondo del calcio, nello specifico agli allenatori, a quelli più conservativi. Una sorta di crociata nel nome dello "spettacolo" che arriva ad accostare il momento di competizione sportiva, la partita appunto, ad uno show che mira a intrattenere, a divertire il pubblico.

C'è in un presupposto simile un fondo di verità: difficilmente sceglieremmo di assistere a novanta minuti di palloni rilanciati con violenza dalla difesa, per liberare l'area, potendo invece assistere a scambi in velocità, a stop sopraffini e uno-due condotti fino ad arrivare in porta, il tutto condito da finezze tecniche e giochi di prestigio col pallone. Poniamo però il caso che quei lanci dalla difesa appartengano alla nostra squadra del cuore, poniamo pure il caso che in una logica di Davide contro Golia permanga lo spazio per un calcio anche più speculativo o pragmatico, che badi serenamente al sodo e non si preoccupi del come.

Pep Guardiola
Pep Guardiola / Quality Sport Images/GettyImages

In fuga verso Netflix

Non c'è spettacolo o non c'è tensione in una simile prospettiva? Davvero la spinta più urgente, a quel punto, diventa l'avvio di Netflix come ultimo baluardo della difesa del bel calcio, come forma di resistenza passiva al Cholismo? Potremmo semplificarla così, senz'altro: se le partite finissero tutte 4-4, se fino al 95' si proiettassero tutti in avanti e se la missione fosse quella di superare il record di passaggi consecutivi prima di andare al tiro l'intrattenimento sarebbe garantito, lo show potremmo godercelo.

Diventerebbe logico a quel punto immaginare il futuro del pallone alla stregua di una ricerca meramente estetica, votandosi a un Dio comune che ci renda tutti quanti presi a inseguire il "bello" come unico timbro possibile di spettacolo. Potremmo però prenderla più larga, allontanandoci dall'idea che sia l'approccio di un allenatore - più o meno conservativo - a sancire la fuga collettiva dal pallone, a non attrarre più le giovani generazioni come un tempo.

Potremmo farlo per due ordini di ragioni: da un lato sappiamo bene che le generazioni passate s'innamoravano eccome del calcio e, senz'altro, sappiamo che scavando indietro nel tempo abbondano gli esempi di squadre tutt'altro che brillanti (od offensive) ma capaci comunque di risultare popolari, di lasciare il segno o restare nel cuore. La logica ci porta dunque a dire che il disamore e la freddezza non sono figlie del tipo di spettacolo sportivo offerto sul campo, o lo sono solo in minima parte.

Laddove ci s'indigna per un Villarreal "all'italiana" che supera il turno in Champions League collezionando meno occasioni o facendo meno possesso dell'avversario, se reagiamo con contrarietà e ci affidiamo così a Netflix, è lecito pensare che, semplicemente, preferiamo altri tipi d'intrattenimento rispetto a quello calcistico. Non è un bestemmia o un sacrilegio: riprendiamo qui proprio quanto affermò Agnelli a suo tempo, denunciando un disinteresse delle giovani generazioni nei confronti del calcio per come lo abbiamo vissuto per decenni in favore di altre forme d'intrattenimento, riassunte dal presidente bianconero nel riferimento (su cui si è anche ironizzato) a Fortnite e Call of Duty.

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Unai Emery / ADAM WARZAWA/GettyImages

Superando il rito

Riferirsi alle giovani generazioni fu forse il lato miope del discorso: l'affare investe tutti, investe ogni possessore di Smart TV o di smartphone, ogni spettatore che nel corso di una partita riceverà stimoli diversi e continui provenienti da altri device o dalla stessa TV su cui sta guardando la partita stessa. Non c'è principio di gioco che tenga, non c'è catenaccio o tiqui-taca che rimescoli le carte: esiste piuttosto un surplus di possibilità e di stimoli, una collezione di ragioni per distrarsi ed uscire (seppur televisivamente) dal clima partita.

Esisterebbe, alla lunga, anche se davvero le partite finissero tutte 4-4 e se l'obiettivo fosse quello di dominare il gioco o di coltivarne l'estetica. Non solo: al di là della quantità di stimoli esterni al mondo del calcio, di una concorrenza più che mai eterogenea e ampia, esiste anche il nodo della concorrenza interna: un'offerta quanto più frammentata e orientata al singolo utente, con un palinsesto sempre più personalizzabile e meno "istituzionalizzato" e uniforme.

In this photo illustration the UEFA Champions League logo...
Logo Champions League / SOPA Images/GettyImages

La presenza sempre maggiore di piattaforme streaming nel contesto calcistico, con DAZN e Prime come esempi ben noti grazie a Serie A e Champions League, ha mutato l'esperienza di ogni tifoso, lo ha fatto sia potenzialmente che - poi - in modo concreto. Potremmo passare da un campionato all'altro, da un documentario sul grande Real a uno speciale su una favola sportiva della League Two inglese, potremmo trascorrere le nottate con l'MLS o col calcio sudamericano, oppure vedere tutto quando preferiamo, mettendolo in pausa, riprendendolo dopo giorni.

Possibilità importanti, risorse apprezzabili, ma chiaramente in grado di svuotare l'esperienza dalla sua dimensione rituale, dai suoi tempi e dai suoi modi classici, parificandola - appunto - alla scelta di una nuova serie TV da guardare su Netflix. L'abbondanza di offerta, l'infinita abbondanza, riesce a saziare la fame ancor prima che questa ti venga: si scivola in un paradosso che però, del resto, appartiene alla natura umana (e no, su quella Simeone non ha responsabilità).

ACF Fiorentina  v Spezia Calcio - Serie A
L'Artemio Franchi / Gabriele Maltinti/GettyImages

Un patto tradito

Di fianco a tutto ciò si pongono poi questioni differenti e persino più degne di approfondimento, relative però alla partecipazione più diretta dei tifosi, quella vissuta allo stadio. Il grado di comodità e di risorse a cui siamo abituati - a cui siamo persino assuefatti - rende talvolta quasi anacronistica la partecipazione all'evento sportivo in presa diretta, riflettendo sulla realtà italiana e ancor di più provando a scendere di categoria. Entrare allo stadio come esperienza retrò, come fascinazione vintage, più che come realtà calata coerentemente nel 2022.

Un'esperienza tutt'altro che invitante, con impianti spesso vetusti e in condizioni disastrate, resa ancor più ostica dalle difficoltà vissute in modo eclatante da realtà "minori", sommerse dai debiti e incapaci di trovare risorse per risollevarsi, per riuscire semplicemente ad esistere ancora. Tutte condizioni che intaccano un patto iniziale tra tifoso/appassionato e realtà sportiva, che minano in modo irrimediabile la possibilità che abbia luogo un riavvicinamento, un dialogo effettivo tra le parti. Nodi e problemi di sistema che ne compromettono le fondamenta, ben più di quanto possa fare un modulo o di quanto possa fare un determinato approccio al gioco.


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