Perché la corsa di Mazzone è diventata un messaggio senza tempo?

Un gol nel recupero, novanta minuti di insulti, la rabbia che ribolle e poi esplode: l'eco di quel momento resiste, dopo più di 20 anni.

Mazzone
Mazzone / Grazia Neri/GettyImages
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Per una forma evidente di pigrizia o di assuefazione a un certo suono, a momenti alterni, si finisce per ricorrere automaticamente a un'espressione o a una singola parola: sono parole che cambiano, nel giro di qualche mese o di qualche anno quando fanno particolarmente presa, ma che in un dato momento storico tornano buone all'occorrenza. Siamo nell'era dell'"iconico", ora, quella in cui gesti, immagini e ricordi si mescolano in un nostalgico bisogno di porli sull'altare, di farne oggetto di venerazione, appendendoli alle pareti o imprimendoli su una maglietta per portarli addosso.

Sono, insomma, pezzi d'identità disseminati nel tempo che reclamano un loro ruolo. Un flusso di memorie e di ricordi che lascia spazio, per chi ha l'età che lo permette, anche per un gesto che - superficialmente - potrebbe essere derubricato come poco sportivo, come provocatorio, potrebbe condurci a vestirci dello sguardo di biasimo che Cristiano Doni rivolse a Carlo Mazzone durante quella incontrollata corsa verso i tifosi dell'Atalanta al Rigamonti, il 30 settembre 2001.

Responsabilità, cuore e rivalsa

Si registrano e si mettono in archivio gol dalla distanza, rovesciate, trofei alzati al cielo, c'è chi riesce a dire esattamente cosa stesse facendo quando un dato fatto sportivo (un fatto tecnico) aveva luogo. C'è poi lo spazio per parentesi umane che trascendono la parte tecnica, per schegge impazzite che infilano nel calcio qualcosa di altro, qualcosa che evidentemente dura e detiene un che di universale. Se volessimo ridurre tutto a un mero fatto di rivalsa sportiva, a un tiro cross deviato che s'infila in rete nei minuti di recupero, faticheremmo a capire perché poi, dopo 22 anni, si senta la necessità di stamparsi addosso un'immagine, di rivendicarne la memoria. Di corse ce ne sono state tante, ci son stati indici puntati, ci sono state liberazioni chiassose e vociate, orgasmi sportivi in quantità (ce ne sono ancora, anche se non impolverati, anche se in HD).

Il punto della questione è che tante di quelle corse, poi, si esauriscono in un'espressione di gioia dotata di una propria logica, di un controllo, corse a loro modo borghesi, che ti aspetti di vedere, che potevi figurarti già a priori. Il senso universale di un momento invece si accende quando, di fatto, il gesto sintetizza tutto ciò che c'è prima e tutto ciò che viene dopo, quando il sentimento umano più vivo resta scoperto: chi può tenersene fuori, chi può dirsi estraneo? C'è poi il tema di una curva, era quella dell'Atalanta ma poteva essere quella di qualsiasi realtà sportiva, che vive al di fuori del regno della responsabilità di ciò che si fa, di ciò che si dice, che naviga nel privilegio dato al gruppo e all'anonimato della massa. Le parole, anche le più dure, perdono dunque il loro peso reale per chi le dice, lo conservano invece per chi le ascolta. Ecco che un coro si tramuta in ricordi che riaffiorano, un fischio arriva dritto al cuore, l'insistenza degli insulti si fa insostenibile.

Al servizio di una giustizia

L'incrocio tra ciò che accade dentro e ciò che emerge fuori, una sorta di intreccio di destino che pare scritto apposta, riesce poi a fare il resto: costruisce l'escalation che porta all'esplosione. Se quella partita fosse finita 1-3 la rabbia si sarebbe tramutata in ricordo, in desiderio futuro di vendetta, in motivazione per i posteri: la corsa di Mazzone, però, ci mette di fronte all'inesorabilità di quel momento, esclude dal quadro un finale diverso. Doveva realizzarsi e lo ha fatto già nel momento in cui l'allenatore del Brescia lo ha pensato: "E mò se famo il 3 a 3 vengo sotto lì da voi…". Quell'eventualità era già un fatto, quando fu pronunciata, quel pallone calciato da Baggio era l'impressione della cifra tecnica del Divin Codino ma, ancor di più, era la traduzione sportiva concreta di un sentimento umano.

Carlo Mazzone, Roberto Baggio
Mazzone e Baggio / Alessandro Sabattini/GettyImages

Si va oltre, poi, trovando un'altra chiave in grado di superare il peso degli anni: il senso di rivalsa cristallizzato in un istante, come a spiegare la natura epica di un confronto sportivo, a riassumerne un'intrinseca tendenza verso altro (dotandolo di una profondità diversa). Un senso di giustizia che utilizza il talento per realizzarsi. Un gol, per quanto bello, agli occhi di chi detesta il pallone resterà solo e soltanto un oggetto che s'infila in una rete, senza timore di smentita: qui si sconfina invece in altro, anche chi è allergico all'evento sportivo in sé potrà trovarsi a comprendere quell'essenza, come rivedendo il finale di un film, come rileggendo le ultime righe di un romanzo. "Io col sorriso dissi che era tutta colpa del mio fratello gemello..." ha raccontato Mazzone, 20 anni dopo, invertendo qui il concetto di colpa con quello di merito.