Perché è così complesso affrontare il razzismo nel calcio?
Tra i tanti nodi critici che sistematicamente tornano ad accompagnare il racconto dell'attualità calcistica reclama un ruolo particolare la deriva razzista che, talvolta, emerge in curve e stadi di tutta Italia. Un tema pronto a nascondersi e a rispuntare fuori a momenti alterni, nell'arco di una stagione, come a rompere la distrazione collettiva: dal silenzio all'indignazione globale nell'arco di poche ore, con prese di posizione condivise che arrivano come reazione (inevitabile) a ciò che il campo propone di volta in volta.
Cambia la cornice, impossibile del resto individuare un'ideale sede dei fatti deprecabili, ma il quadro resta lo stesso e - soprattutto - restano le stesse, a posteriori, le parole di ferma condanna e gli auspici di una "reazione di sistema" a un tema ritenuto cruciale, a una criticità che va necessariamente "tenuta fuori dagli stadi". Come spesso accade, nel momento della reazione, l'unanimità è tutto sommato scontata e le ricette aprioristiche diventano pane quotidiano: col passare delle settimane, anche solo dei giorni, si torna a scivolare inesorabilmente nella dimenticanza e nella distrazione, nell'attesa di una nuova ondata e di nuove forme di indignazione popolare e istituzionale.
Da qualsiasi lato si voglia osservare il problema, scegliendo uno dei numerosi punti di vista possibili (quello del calciatore, del direttore di gara, dell'istituzione calcistica o del tifoso), appare lampante la complessità del discorso e l'impossibilità di porlo sotto una lente semplicistica, affidandolo a ricette usa e getta, ai proclami a presa rapida. Perché il razzismo diventa un nodo così complesso da sciogliere, anche solo da affrontare, quando la lente d'ingrandimento è quella del pallone?
Doppiopesismo e irrazionalità
Innanzitutto esiste una componente, inevitabile per quanto irrazionale, legata alla natura del tutto viscerale e illogica con cui troviamo naturale porsi all'evento calcistico. Essere tifosi, per quanto ci si possa sforzare a raccontarla diversamente, non equivale ad essere spettatori: non c'è mera osservazione di un evento, c'è al contrario una partecipazione emotiva totale. Il tutto unito a dinamiche sociali distorte, inerenti al gruppo e alle sue leggi talvolta disfunzionali.
Tutte logiche (irrazionalità e dinamica di gruppo) che portano il razzismo a divenire una mera via di sfogo: si tratta di cogliere un presunto punto debole del nemico per ferirlo più dolorosamente, per fargli del male. In questo senso la deriva razzista diventa un problema di circostanza, un muro invalicabile poiché connesso alla dinamica viscerale di una curva più che a effettive questioni di principio. Accanto al tema del tifo ne esiste uno, parallelo ma per certi versi anche interconnesso, legato alla faziosità con cui si filtrano le questioni e le notizie connesse al razzismo nel calcio: la criticità è quella del doppiopesismo, della tendenza a condannare e giustificare in base alla bandiera che, di volta in volta, finisce nell'occhio del ciclone.
Il tutto si traduce, meramente, nella reazione: "E allora i cori verso Kostic?". Anche la deriva razzista, insomma, diventa un terreno di battaglia per tifoserie, portando il dibattito a perdere ogni forma di pragmatismo per tornare alla necessità vitale di portare acqua al proprio mulino, continuando a guardare il dito anziché la Luna. In questo contesto anche la condanna, per quanto ferma e severa, diventa una questione di circostanza e fa a pugni con i se e con i ma che, come pretesti, di volta in volta vengono tirati in ballo.
Mille voci in gioco
L'impossibilità di individuare ricette semplici si lega infine, in modo evidente, alla quantità di parti in causa e alla molteplicità delle voci in ballo. Non esiste, in sostanza, un singolo contributo che possa realmente fare la differenza e diventa utopistico comprendere in modo nitido quale sia la fonte originaria del problema.
Da un lato esiste la coscienza del singolo calciatore preso di mira, dall'altra le dinamiche di campo che s'intrecciano con quel che arriva dagli spalti, al contempo esiste una figura terza - l'arbitro - chiamata a reagire agli stimoli stessi del campo (tra accenni di rissa e nervosismo) con un orecchio teso alle curve, individuando un precario punto di equilibrio che permetta di essere equo. Fuori dal campo e dal suo richiamo immediato, poi, esiste il lavoro svolto dalle società rispetto alle tifoserie e resta poi sullo sfondo il ruolo cruciale, a monte, delle istituzioni calcistiche e politiche.
Un intreccio ricco di voci e di sfumature, in cui l'esigenza reale di affrontare il problema si mescola alla necessità di non sporcarsi le mani, di non intaccare troppo a fondo un giocattolo che serve a tutti. Diventa evidente, in un costante tiro alla fune, quanto sia illogico e utopistico immaginare conseguenze rapide e soluzioni semplici per un problema così frastagliato: il deludente risultato, come di consueto, è una voce che si leva e ci racconta quanto sia ineluttabile dover "fare qualcosa" (dovere che, chiaramente, spetterà a qualcuno che si trova più in alto di noi).