Perché Allegri ha citato Antetokounmpo? La logica (forzata) di un riferimento

Antetokounmpo
Antetokounmpo / KARIM SAHIB/GettyImages
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La narrazione delle cose di calcio ci ha abituati, in modo sempre più chiaro, a percorrere un sottile filo che divide due scenari totalmente opposti tra loro: il trionfo e il fallimento, la gloria e la vergogna.

Opposti in modo evidente nel loro significato, dunque, ma spesso separati da dettagli, da minuzie, da una palla che rimbalza sul palo oppure entra in porta: frazioni di secondo o situazioni episodiche in grado di spostare il racconto di un evento sportivo, tali da rendere eroi oppure (se l'epilogo è sfortunato) da riportare in ballo un termine così pesante come, appunto, "fallimento".

L'idea, poi, di dover continuamente tracciare un bilancio (o di proiettarsi in un ipotetico futuro per tracciarne uno) rende il fallimento uno sgradito e ingombrante ospite con cui, senza volerlo, occorre fare i conti già al presente. E proprio attorno a questo tema si è estesa l'eco proveniente da due mondi diversi e lontani, da un lato l'NBA e dall'altro la Serie A.

Fallimento? No, strada per il successo

A tracciare la curiosa connessione intercontinentale (e soprattutto interdisciplinare) è stato Massimiliano Allegri in conferenza stampa, presentando la sfida tra Bologna e Juventus: "Fa parte della vita. Sarei soddisfatto se vincessi tutto. Ci sono degli obiettivi. Potrei chiederlo anche a te se sei soddisfatta. Faccio come Giannis, se ti ritrovo qui l'anno prossimo hai fallito? Alla fine dell'anno una vince il campionato, una la Coppa Italia, una la Champions, una l'Europa League. Tutte le altre che non hanno vinto hanno fallito?".

Massimiliano Allegri
Max Allegri / Omar Vega/GettyImages

Allegri ha citato in modo esplicito, tirando in ballo Giannis Antetokounmpo, le parole del due volte MVP, eliminato a sorpresa coi suoi Bucks dai Miami Heat ai playoff NBA. La risposta dell'ala grande dei Bucks è diventata rapidamente virale ed è stata, da più parti, interpretata come una lezione di sport: si è trattato, del resto, di parole capaci di "normalizzare" ciò che in genere si demonizza (la sconfitta) e di spostare la valutazione fatta di un epilogo negativo emerso sul campo.

Non si parla di fallimento, nello sport, ma di sconfitta come possibilità logicamente contemplata, come situazione con cui fare necessariamente i conti: "Mi hai fatto la stessa domanda lo scorso anno. Hai una promozione ogni anno nel tuo lavoro? Quindi tutti gli anni sono un fallimento? Ogni anno lavori per qualcosa, per un obiettivo, che può essere una promozione, occuparsi della famiglia, dargli un tetto, prenderti cura dei tuoi genitori. Non si tratta di fallimento, si tratta di passi verso il successo. Non ne faccio una cosa personale, si tratta di passi. Michael Jordan ha giocato per 15 anni, ha vinto 6 titoli ma negli altri 9 anni è stato un fallimento? La domanda è sbagliata, non c'è fallimento nello sport. Ci sono giorni buoni, giorni meno buoni, giorni in cui ottieni il successo e altri no, giorni in cui è il tuo turno e giorni in cui non lo è. Lo sport è questo, non puoi vincere sempre, anche altri possono farlo e quest'anno sarà così".

Esiste chiaramente qualcosa di universale nelle parole di Antetokounmpo, un messaggio che riesce ad avere un valore anche senza restare ancorati al basket: ampliando lo scenario resta intatta la logica di un discorso senz'altro virtuoso. In tal senso diventa complesso sindacare sulla logica del riferimento fatto da Allegri: lo sport non contempla (per forza di cose) il successo come unico risultato possibile e comprende uno spazio necessario per l'affermazione altrui, come finale con cui fare i conti. Restando al calcio, alla percezione di vittoria e sconfitta, tornano alla mente le parole sorprendenti di Paolo Maldini, spesso identificato all'unanimità come esempio di successo: "A pensarci bene io sono il calciatore più perdente della storia...".

Il riferimento di Allegri è coerente?

Il nodo, pensando alla citazione di Allegri, tocca però due questioni diverse, tali da rendere forzato il riferimento. Da un lato esiste l'ingombrante e ricorrente slogan secondo cui "vincere è l'unica cosa che conta": un motto che, già in sé, riesce proprio a ribaltare quella prospettiva proposta da Giannis, andando a svilire (in modo dirompente e palese) tutto ciò che non è vittoria, andando a rendere imperdonabile e superfluo ogni "premio di consolazione".

In un contesto come quello bianconero, Allegri lo ha capito probabilmente meglio di chiunque altro, la pietra di paragone costante è proprio quel motto, quel richiamo inesorabile che rende scomoda ogni altra posizione che non sia la prima. Un discorso amplificato, del resto, da un ciclo interrotto da tre anni e dalla frustrazione che questa diversa dimensione porta con sé (affiancata a vicissitudini exta-campo capaci di acuire il senso di instabilità).

Luciano Spalletti, Massimiliano Allegri
Spalletti e Allegri / Nicolò Campo/GettyImages

La frustrazione, appunto: il secondo elemento che rende meno solido il riferimento ad Antetokounmpo è proprio un'attualità fatta di nervi a fior di pelle, di atteggiamenti ben lontani (in casa Juve) dalla lucida consapevolezza espressa dal campione NBA e dalle sue parole. Immaginare un richiamo al senso stesso dello sport, alla normalizzazione del concetto di sconfitta, si concilia difficilmente con la logica della provocazione e dell'irrisione: "Tanto arrivate sesti" o "Siete riusciti a vincere uno Scudetto"; frasi decisamente complesse da associare a un richiamo (teoricamente valido) come quello fatto in conferenza stampa dal tecnico bianconero.