Un sogno che ci hanno raccontato (in fuga dai paragoni)
Il ricordo e l'omaggio ottengono il loro naturale monopolio, non c'è racconto diverso che possa reclamare oggi uno spazio o un trafiletto. Si tratta dell'inchino dovuto ai Re, di simboli condivisi universalmente che raccolgono, ed è raro, una eco trasversale e impossibile da definire soltanto come attinente allo sport.
Nessuno spazio, dunque, per altre immagini e altri nomi: la scomparsa di Pelé, l'addio alla leggenda più popolare della storia del calcio (fusa nel mito con la stessa essenza del pallone), rende l'attualità una sbiadita copia di sé e cannibalizza ogni racconto. Tra le righe però, all'interno d un racconto e di un ricordo, trova spazio e s'insinua qualcosa di altro.
Il vizio del paragone
S'insinua quella stessa lama sottile che, nelle ultime settimane, abbiamo vissuto come sempre più familiare, sempre più visibile: la lama del paragone. Un esercizio che appartiene in maniera fin troppo profonda al mondo del pallone, in un racconto che spesso procede per opposizioni e per contrasti, che non sa darsi senza la presenza di un antagonista sullo sfondo. Il regno dei dualismi, delle rivalità vere o immaginate, del "chi è meglio di chi?".
Una questione tornata in qualche modo attuale, ammesso che se ne fosse mai andata, col successo dell'Argentina di Lionel Messi ai Mondiali in Qatar: in quel frangente è divenuto un ritornello, un tormentone inesauribile, quello di chi attendeva un ultimo timbro per dire chi fosse "il migliore di sempre" e detronizzare dunque altri miti, in una sorta di circolo vizioso senza una reale via d'uscita.
Ed ecco, dunque, che una storia albiceleste ha trovato il modo di rispolverare quella tendenza all'opposizione come cifra essenziale, al confronto come epilogo inesorabile: Messi vs Maradona. In quel caso si è detto come la difficoltà generazionale di accettare confronti si connetta al prezioso ruolo "della ruggine e delle foto sbiadite", alla dimensione del ricordo come prioritaria rispetto a quella dell'osservazione presente, di un Mondiale vinto nel dicembre del 2022.
Un vizio nostalgico, insomma, che fa da freno a una possibile equiparazione o persino ad un sorpasso. E poi, rinverditi i fasti del confronto argentino, se ne va O Rei. La morte di Pelé, come detto, riesce a esaurire in modo totalizzante il racconto odierno di ciò che offre il calcio: lo fa, appunto, seguendo quella stessa confusione tra Edson Arantes do Nascimiento e lo sport che praticava. Entità divenute, anche nel loro ricordo e nella loro magica amplificazione, una cosa sola.
Dalla nostalgia al sogno
Ci troviamo qui, ancora una volta, in fuga dai paragoni poiché dalla dimensione della nostalgia si passa a quella del sogno. Si può mettere a confronto un ricordo d'infanzia con un sogno, insomma? Si può pensare di scovare criteri logici e classificabili per fondare una teoria che sia valida, prendendosi così la ragione? Non è possibile, nella misura in cui non è possibile equiparare un senso ad un altro, la lingua scritta o quella parlata, un film a una canzone.
Si scivola nel paragone quando non si comprende una differenza innata, quando non riusciamo a contestualizzare (e a far proprio) un fenomeno come parte del suo tempo, come voce di un mondo diverso da questo. Si è spesso detto come il mito di Pelé dipenda in modo fondamentale dalle suggestioni di un racconto, da cronache lontane a cui ci affidiamo per creare un'immagine: come, appunto, quando qualcuno ti racconta un sogno.
Proprio come in un sogno, poi, la realtà si confonde con quel che ci siamo immaginati: un dribbling o un sombrero possono diventare così delle idee, cristallizzarsi nella memoria, anche senza averne avuto un contatto diretto. Così è successo e così succede con Pelé, nella perfetta consapevolezza (e nel rimpianto) di esser stati costretti a comporre pezzi del quadro senza mai averlo visto per intero.