Non ci sono eletti, non ci sono maestri: la gavetta non è solo un'opzione
Trovarsi a maggio inoltrato a dover sindacare sulla scelta bianconera di puntare su Andrea Pirlo come allenatore della prima squadra, soluzione maturata non senza generare stupore nell'agosto del 2020, sarebbe come minimo anacronistico, forse non equiparabile a sparare sulla croce rossa ma, di sicuro, un esercizio ormai fuori tempo, persino stonato. Il tempo delle valutazioni nel merito è passato e, non da ieri, si è passati al tempo della raccolta, delle somme da tirare: il punto insomma, adesso, non è più capire se la Juve abbia fatto bene o meno a passare da Sarri a Pirlo (tante parole sono già state spese sul tema) ma riflettere sul ruolo stesso dell'ex regista nelle vesti di allenatore, anche al di fuori dell'universo bianconero, anche in prospettiva futura. Perché, inutile negarlo, il rischio di bruciarsi c'era e c'è tutt'ora: quando le aspettative e le necessità sono esponenziali è evidente che anche una leggera sbandata, un calo di tensione, abbia il sapore del fallimento, della Caporetto sportiva, anche al di là della reale entità del fatto.
E quando sei un ex campione del mondo, quando sei stato il prototipo del regista ideale, quando inizi subito dal piatto forte (una Juve reduce da nove scudetti consecutivi), è quantomeno preventivabile che l'eventuale caduta non sarà morbida o ammortizzata. Tra l'altro, di fronte a un totem del calcio italiano, è persino comprensibile che (a priori) esista una reverenziale volontà di creare mediaticamente un Maestro anche quando, di fatto, le basi sono soltanto eventuali, immaginate, soltanto suggestioni. Come se poi, ripensando al passato, fosse scontato il passaggio dalla grandezza espressa in campo a quella maturata in panchina: quanti fuoriclasse hanno fallito come allenatori? Quanti "signor nessuno", invece, hanno compiuto scalate impressionanti da remoti campi di provincia fino all'Olimpo del pallone a suon di promozioni e di medaglie conquistate duramente, negli anni? E il passaggio di consegne tra Sarri a Pirlo, nell'agosto 2020, poteva essere letto anche così: una rinuncia netta al concetto di gavetta, un desiderio di celebrare il nome e di accantonare un percorso, un vizio che peraltro (in chiave juventina) ha assunto anche altre forme in tempi recenti, con soluzioni quasi "videoludiche" più che sportive e con coppe dei sogni scese dal cielo e lasciate subito sulla porta.
Al di là di discorsi, talvolta anche utili ed efficaci, tutti tesi al rebranding e allo "stile" esistono però schemi e consuetudini da cui, e ci sarà un motivo, diventa difficile rifuggire se si vuol parlare di pallone: la gavetta di un allenatore, perlomeno il suo percorso di maturazione, non è una poco elegante minaccia che rischia di macchiare il vestito buono, è il suo esatto opposto. Sempre che non sia poco elegante maturare, capire determinati meccanismi, rafforzare personalità e carisma nella gestione del gruppo. Non si tratta di un dato anagrafico, anche l'attualità ci parla di giovani allenatori già formati e competitivi ad alto livello, ma della strada compiuta: lo stesso Nagelsmann, classe '87 secondo in Bundesliga col suo Lipsia e prototipo del giovane prodigio della panchina, ha maturato per assurdo un bella esperienza come vice di Kurz e come allenatore delle giovanili, prima di diventare il più giovane tecnico nella storia della Bundesliga a 28 anni.
Non si tratta, come detto, di un mero dato anagrafico ma di tappe e passaggi probabilmente imprescindibili: il profilo di Pirlo, anche andando ad analizzare quanto accade nei club che occupano le prime posizioni nei principali campionati europei, rappresenta un unicum, una grande eccezione. Anche altri tecnici forti di una carriera da calciatore a livelli massimi, come Zidane, Simeone o Koeman, hanno comunque vissuto un periodo di crescita e di maturazione (in misura diversa) prima di essere gettati in pasto alle pressioni e alle enormi attese della prima squadra. Anche lo stesso Guardiola, prima del grande salto nel 2008/09, aveva comunque vissuto un'esperienza di un anno alla guida del Barcellona B: una tappa breve, sì, ma comunque formativa rispetto al caso Pirlo. L'Italia ha regalato due soluzioni piuttosto simili in passato, come Leonardo e Seedorf, entrambi esperimenti che non hanno poi avuto continuità in panchina: resta lecito adesso domandarsi quale potrà essere il futuro di Pirlo dopo questo passo, per certi versi, più lungo della gamba. La difesa da parte della società appare più una questione di stile che non di sostanza, a questo punto, e pensando al futuro di Pirlo come allenatore sarebbe possibile, anche auspicabile, immaginare un percorso in qualche modo affine a quello di un Filippo Inzaghi, pronto a rimboccarsi le maniche e a ripartire dal basso prima di riaffacciarsi (con più esperienza alle spalle) nel panorama dei grandi, capendo che il nome, da solo, non fornisce uno scudo abbastanza solido e duraturo. Al contempo però, per certi versi, fa riflettere il distacco con cui Pirlo stesso, dopo aver appeso le scarpe al chiodo, parlava della carriera di allenatore: una prospettiva che non lo entusiasmava, tanto da dire che "non avrebbe scommesso un euro" sul suo futuro come tecnico.
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