Messi vs Maradona: perché il paragone resta ancora così indigesto?

Maradona con la maglia di Messi
Maradona con la maglia di Messi / Jean Catuffe/GettyImages
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Uno dei vizi più profondi e radicati nel mondo del pallone, sia in una prospettiva storica che restando strettamente attaccati all'attualità, riguarda un'incapacità fisiologica di vivere i fenomeni e gli eventi in quanto tali, slegandoli cioè dalla dimensione del paragone, del meglio o del peggio, di una rivalità epica e priva di una soluzione soddisfacente. Un po' come continuare a chiedersi, a oltranza, se sia nato prima l'uovo o la gallina, incastrandosi in un gioco di opinioni contrastanti in cui tutti hanno ragione e, di conseguenza, nessuno ce l'ha davvero.

Il Mondiale finito col successo dell'Argentina, in Qatar, partiva seguendo il copione di uno scontro finale tra Lionel Messi e Cristiano Ronaldo: due fuoriclasse che collezionano Palloni d'Oro pronti a dare l'ultima zampata, pronti a lasciare una firma ancor più profonda su storie già straordinarie. Un duello che, col passare delle sfide e dati gli esiti per il Portogallo, si è poi trasformato, diventando nell'immaginario collettivo un gioco differente, persino più audace e privo di soluzione.

Si tratta cioè, anche a posteriori, di capire se la vittoria di un Mondiale - dalla prospettiva di Leo Messi - fosse l'unico tassello mancante per soppiantare Diego Armando Maradona tra i più grandi, l'ultima tappa di un'ascesa definitiva e senza appello, tale da non rendere più così inattaccabile il trono del Pibe de Oro. Come detto, però, l'inganno del paragone ha come solo esito quello di girare a vuoto, quello di prendersi autonomamente la ragione nell'impossibilità di convincere fino in fondo chi venera una divinità sportiva differente.

Lionel Messi
Il Mondiale di Messi / Jam Media/GettyImages

E si torna appunto qui: agli occhi di molti non occorreva un Mondiale per mettere il timbro sulla storia di Messi, per dotarla di pari dignità rispetto al mitologico predecessore, d'altro canto non manca chi - anche a fronte dei risultati - ritiene superfluo e pretestuoso persino parlarne, ritenendo quello di Maradona un piano diverso dell'esistenza, come se un semidio volesse accostarsi a una divinità fatta e finita, una di quelle immortali per intendersi. Al di là dei record e dei palmares, al di là dei tentativi supportati dalla solidità di dati oggettivi, resta da sciogliere un nodo, resta da risolvere un enigma: perché, nell'immaginario collettivo, appare ancora oggi così complesso toccare quel totem chiamato Maradona?

Il richiamo di Napoli

Nelle orecchie dei tifosi italiani risuonano ancora i frequenti richiami alla città di Rosario, dalla voce di un Lele Adani emotivamente trascinato dall'epopea albiceleste, ma - pur sottolineando la dignità di una simile devozione sportiva - possiamo anche riconoscere come la potenza evocativa di Napoli, anche a posteriori, giochi un ruolo non secondario nel definire i colori con cui abbiamo dipinto il ricordo di Maradona, nel consegnarcene un'immagine.

Non occorre, a tal proposito, fissarsi soltanto sugli omaggi amplificati dall'assenza (dopo la scomparsa di Maradona, nel 2020). Si può capire come il ruolo di Napoli fosse così potente, tanto da plasmare un'idea di mito, anche osservando l'arrivo di Maradona nel capoluogo campano: un crocevia cristallizzato nella memoria, per alcuni una tappa di cambiamento e di crescita personale, tale da intrecciarsi con la propria stessa biografia (come raccontato in modo magistrale da Sorrentino in È stata la mano di Dio).

Giant Diego Armando Maradona murals, in the popular...
Diego Armando Maradona / Marco Cantile/GettyImages

Esiste insomma un prima ed esiste un dopo, rispetto a quel 5 luglio 1984, così come ai posteri fu consegnata una magia difficilmente ripetibile: attendere un campione come portatore di un'epocale svolta sportiva e scoprire che, davvero, quella profezia si sarebbe poi avverata nella forma di due Scudetti e di una crescita radicale di status. Parlando del richiamo di Napoli, nella definizione di un mito come divino e non soltanto come sportivo, possiamo dunque scoprire una realtà in cui i fatti restano poi dipinti sulle pareti oltre che fissati nella memoria di chi effettivamente c'era, una realtà in cui le storie già epocali diventano leggendarie, dotate di un'aura a tutti gli effetti spirituale.

Si parla di uno stadio che porta quel nome, insomma, ma prima di tutto si parla di energia che percorre i vicoli: qualcosa che ribolle, in sostanza, e che dal punto di vista italiano rende complesso tornare razionali, riuscire a leggere dati e statistiche (anche se li abbiamo di fronte agli occhi, proprio in quel momento).

La forza dei ricordi (anche se non tuoi)

C'è poi una questione altrettanto dirompente, pur se non connessa esclusivamente all'idillio tra Napoli e Maradona. Un vizio del calcio, nella sua analisi, riguarda come detto la sindrome del paragone ma, al contempo, non manca un costante effetto nostalgia, un desiderio perpetuo di "ritorno al passato". Esiste cioè l'idea di un'età dell'oro che mai sarà raggiunta, che resta lassù proprio come fa Maradona, che lo fa (e lo farà) a prescindere dagli scenari presenti e futuri che il calcio ci offre.

Si tratta dello stesso meccanismo che ci porta ad apostrofare il giovane attaccante di turno, spiegando che "contro Vierchowod e contro Pasquale Bruno non avrebbe toccato palla": prendiamo tracce di passato, senza saper leggere nei contesti, e diamo loro un dominio, un valore superiore poiché filtrato dall'emotività. Come quel gelato o quella merendina che da piccoli bramavamo e che poi, assaggiandoli decenni dopo, ci lasciano perplessi: parte della loro essenza viveva appunto nel ricordo, rendendo dunque improponibile qualsiasi paragone.

Diego Maradona
Il Napoli di Maradona / Etsuo Hara/GettyImages

Maradona dunque, rispetto a Messi, ha in sé quel bonus, quel valore aggiunto fatto di polvere o di ruggine, fatto della stessa sostanza dei profumi dell'infanzia: inorridiamo così, dimenticando la logica, di fronte all'idea di un paragone. Ci tappiamo le orecchie ancor prima di sentire cos'abbia da dirci l'interlocutore.

La cornice cambia il quadro

Il peccato originale del paragone, come criterio fondamentale nelle valutazioni calcistiche, passa dall'incapacità di contestualizzare in modo efficace grazie a una prospettiva di evoluzione (o comunque di cambiamento). Non vale soltanto per il calcio: la forza rivoluzionaria di un artista, ad esempio, esiste anche in funzione del momento storico in cui inizia a creare. La stessa identica formula, proposta anni o decenni dopo, risulterebbe solo derivativa, solo una copia di quanto già visto in precedenza.

Esistono, tornando al calcio, tanti modi di essere fuoriclasse quanti sono i momenti diversi di "crescita" dello sport: la grandezza di Cruyff e il suo status, ad esempio, sono legati a doppio filo alle conseguenze della sua mentalità calcistica su quello che poi è divenuto il gioco, su quelli che sono stati i principi appresi e divulgati nei decenni successivi. In questo senso, dunque, le figure di Maradona e di Messi arrivano a differire in modo radicale e potente, perlomeno nel loro racconto. Pensando a Messi, ad esempio, si è discusso a lungo di quanto la sua grandezza fosse correlata al contesto sportivo in cui ha lungamente fatto la differenza, a un Barcellona pensato a sua immagine e somiglianza, creato per esaltarne le qualità all'interno di un'orchestra. Il solista, insomma, dentro un collettivo perfetto.

Argentina's coach Diego Maradona (R) spe
Messi e Maradona / JAVIER SORIANO/GettyImages

Nel caso di Maradona resiste l'epica (datata, dunque dotata di un fascino ulteriore) del fuoriclasse in grado di mutare il corso delle cose col proprio semplice intervento, del Re Mida, dell'eroe composto da una sostanza diversa rispetto a quella dei comuni mortali. In questo senso ci aiutano le parole di Bruscolotti, capitano del primo Scudetto azzurro, ai microfoni di 1 Station Radio: "Non posso dire il motivo per il quale Leo non sarà mai come Diego, ma ognuno di noi dovrebbe riuscire ad attingere informazioni su ciò che Maradona ha compiuto durante la sua carriera". Una prospettiva che ricorda quella di una parabola da conoscere, di un messaggio da tramandare: quando si parla di evangelizzazione, insomma, non c'è palmares abbastanza fornito da spostare gli equilibri, non c'è Coppa del Mondo che possa intaccare un pensiero.