Luciano Spalletti e la nomea di antipatico: le ragioni di un corto circuito mediatico
"Lo so, lo so che dicono tutti che sono antipatico! È questa l’etichetta che mi hanno attribuito e ormai la tengo. Ma poi...perché? Sarà che del mio lavoro non parlo con nessuno, sarà forse per lo sguardo un po’ severo. Ma garantisco che sono una personcina per bene, al punto che mi sposerei"
- Luciano Spalletti
Sono una personcina per bene, al punto che mi sposerei. Groucho Marx? Woody Allen forse? No, un tecnico di Serie A. Uno dei pochi che - per esperienza, curriculum e soprattutto indole personale - si trovano a dover dare conto a un giornalista, nel corso di un'intervista al Corriere della Sera, della nomea che lo circonda, di questioni lontane dal campo, dai moduli scelti, da quel giocatore schierato come titolare al posto di quell'altro.
Antipatico, il punto è proprio questo, non è la parola esatta per capire di cosa si parli, di quale sia effettivamente l'alone che mediaticamente circonda Luciano Spalletti: uno che, fuor di retorica, difficilmente lascia spazio per tiepide vie di mezzo, per qualche sparuto applauso e qualche timido borbottio. No. Quando si ragiona di Spalletti ci sono le curve, ci sono le ovazioni da un lato e ci sono i fischi dall'altro: divisivo, forse, più che antipatico.
Meno io, più noi
Una delle ragioni sottostanti, uno dei pilastri principali di questo "corto circuito", riguarda proprio la capacità di apparire come mediaticamente attratto dai contrasti, dal dualismo come espressione massima di coraggio (o di sfacciataggine, per altri).
Quella necessità vitale di immergersi a tal punto nella realtà di un club da arrivare a fondersi con lo stemma dello stesso, senza permettere che ci sia spazio per individualismi, per ego debordanti o per singoli che si azzardano a superare il valore dello stesso club o che comunque ci provano. Un richiamo costante al "noi" anziché all'"io" che viene percepito, a sua volta, come protagonismo, come un senso di superiorità rispetto agli Icardi, ai Totti o agli Insigne di turno.
Speriamo de morì tutti dopo
Ed è evidente come la vicenda Totti abbia contribuito in modo unico e irrimediabile a "corrompere" agli occhi di tanti l'immagine di Spalletti, trascinando la valutazione sul piano umano prima ancora che su quello sportivo.
Si parte sì da una considerazione di utilità alla causa, di considerare quanto conti il totem e quanto conti il calciatore in un dato momento della stagione, ma si sfocia in una narrazione diversa: difficile negarlo, poi, quando finisci per diventare l'antagonista in una serie tv di successo (e quanti allenatori possono citarlo nel curriculum?).
Un'altra faccia dell'"antipatia", insomma, riguarda lo spostamento della telecamera: dal campo alla vita, dalle frasi fatte dietro a cui generalmente ci si nasconde alla scelta di giocare a carte scoperte, di compromettere anche qualcosa quando è il caso, se il "bene della squadra" lo richiede. Quello, insomma, viene prima della comodità personale, della tanto spesso citata "comfort zone".
Ci sono allenatori, un caso eclatante è quello di Pioli, che riescono ad attutire il colpo di fronte a individualità ingombranti e riescono persino a sfruttare virtuosamente - assecondandolo - l'ego di un calciatore. La strada di Spalletti è meno orientata al compromesso, al buon viso a cattivo gioco come stile di vita, ed è evidentemente un percorso che - agli occhi di chi sta fuori - può rendere spigolosi, severi, poco malleabili di fronte agli imprevisti.
Le sardine di Cantona, le galline del Cioni
Esiste poi un fattore probabilmente sottovalutato ma, negli effetti, altrettanto dirompente: Spalletti è uno che parte per la tangente, è un allenatore di calcio ma può capitare anche di dimenticarsene, quando chiacchiera. Sei lì che parli di Lobotka e ti ritrovi a parlare del mare, sei lì che presenti una partita e - questione di secondi - tiri in ballo il Cioni e le sue galline.
Capitò pure a Cantona: "Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che delle sardine stanno per essere gettate in mare" disse il francese commentando la squalifica dopo il calcione liberatorio al tifoso del Crystal Palace. Modi di affrontare le questioni passandoci accanto, di alludere, di eludere l'intervento dell'avversario con un doppio passo retorico. O semplicemente strade per ricordarsi di non essere solo e soltanto "uomini di calcio".
Diventa chiaro come la lettura di certe deviazioni possa, di nuovo, creare una schiera di fanatici idolatranti (un esercito di meme, una cascata di pagine social) ma anche un nutrito gruppo di perplessi, di sopracciglia alzate e sospiri di frustrazione. Antipatico non può essere la parola giusta, no. Divisivo senza volerlo essere, viscerale e poco incline a tapparsi il naso, talvolta criptico di fronte a chi si aspetta una sopravvalutata chiarezza: comunque un'eccezione, comunque segnali rari di una certa libertà nell'ingessato mondo del pallone.
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