Le storie sono storie, il calcio è calcio: l'esonero di Mihajlovic non può stupire
La sete di un'epica differente, quella che esiste su piani diversi da quello del risultato sportivo, spinge lo sguardo di chi osserva il calcio a figurarsi panorami inediti, a disegnare scenari irreali e a confondersi, trovandoli coerenti. La ricerca di storie confonde, lo fa da sempre, dando l'illusione che all'interno di un contesto di competizione sportiva esistano criteri che non siano - appunto - misurabili in punti, in gol fatti e subiti, in traguardi oggettivi.
L'esonero di Sinisa Mihajlovic ha spiazzato, sia per il nome senz'altro pesante in ballo che per le tempistiche (a poche giornate dall'inizio della stagione), ma ha prodotto riflessioni diverse e generato una forma di ambiguità: una storia personale fatta di lotta, un percorso umano travagliato, può spostare concretamente il destino sportivo di un professionista? La risposta, in assoluto, non può che apparire negativa: non c'è traccia insomma di un'epopea umana che renda impermeabile un tecnico dall'epilogo di un esonero, che metta al riparto un professionista del calcio da quel tipo di giudizio finale.
Il mondo del calcio non può permettersi di avere un cuore e non può al contempo possedere una memoria funzionante: sarebbe come chiedere a uno smartphone di seguire un'etica, come aspettarsi che un PC abbia senso dell'umorismo oppure sia dotato di spiccata sensibilità. L'esonero di Mihajlovic può rappresentare la proverbiale punta di un iceberg, in questo senso, sia per valore del nome in ballo che per l'attenzione mediatica conseguente ma, al contempo, sarebbe una forma di superficiale ipocrisia svegliarsi adesso, fingere di aver creduto a una storia differente.
E l'epopea ideale, certo, ci spingeva a immaginare un percorso sportivo eroico che abbinasse un riscatto umano, una serenità ritrovata, con una escalation di risultati altrettanto rimarchevole: un Bologna capace di seguire il tragitto di un eroe e di tradurlo sul campo. Materiale buono per una fiction, propositi interessanti per lavorare di fantasia, ma niente che riguardi davvero il pallone. Il guaio vero risiede nella confusione, nell'intenzione di voler dare a una storia chissà quale valore: tutti, di fronte alla classifica, si diventa la stessa cosa, senza paladini, senza eroi.
L'allenatore in grado di far vincere miracolosamente un campionato diventa così un peso di cui liberarsi, il direttore sportivo capace di arricchirti tecnicamente ed economicamente si trasforma in un'insidia, senza che esista alcun timbro di garanzia, alcuno scudo sufficientemente robusto.
La punta dell'iceberg, quest'ultimo esonero, riporta alla mente il colpo di teatro con cui Cesare Prandelli scelse di dimettersi nel marzo del 2021 e di farsi da parte, lasciando il mondo del pallone: in quel frangente l'ex tecnico viola realizzò con tutta probabilità come il calcio non fosse la sede giusta per dare valore a una storia, per rendere meriti a chi ne ha o prolungare una certa riconoscenza. Una presa di coscienza che, oggi più che mai, appare lucida e inesorabile.