Le battaglie universali hanno un motore intimo, Megan Rapinoe: sorella, donna, icona
Che il calcio sia la strada per oltrepassare dei muri belli alti lo ha capito da tempo, Megan Rapinoe. Lo ha capito prima delle battaglie mediatiche, prima delle parole dette in modo chiaro e dirompente in faccia a Donald Trump, ben prima dei trionfi mondiali con i suoi Stati Uniti. Una storia dal valore universale ha bisogno di un motore più intimo, a tutti gli effetti familiare, e di motivazioni solide: altrimenti si scivolerebbe nel cliché, nell'onda da cavalcare per un mero fatto di immagine e di copertine. Ma, di certo, così non è. E forse può apparire paradossale che una delle spinte maggiori nella vita di una donna, diventata un'icona per il suo modo di essere donna, si leghi a livello biografico alla vita di un uomo. Un uomo, un ragazzo, che ha preso una strada diversa: costellata dai guai, dall'oscurità, da un vortice potenzialmente senza via di uscita e di ripresa. Quel ragazzo era ed è suo fratello Brian, a lungo il suo riferimento e il suo faro, l'esempio da imitare in tutto e per tutto: il calcio, il numero 7, il ruolo in campo, persino il taglio di capelli. Ma sono rapporti, questi, che vanno ben oltre lo sport: l'infanzia vissuta insieme a Redding con tanti piccoli grandi insegnamenti, diventando il "mito" e l'esempio di Megan e della gemella Rachael, perché anche solo cinque anni in più (da piccoli) significano qualcosa di enorme.
Poi, però, da bambini si inizia a cambiare, il gioco non è più sufficiente e ci si affaccia su un panorama differente e inesplorato, al quale non tutti reagiscono allo stesso modo. Quando non si è più bambini si finisce in una nuova realtà, una realtà che Megan non poteva ancora capire e di cui ormai era diventata solo spettatrice: la vita del "suo" Brian stava cambiando, era una discesa ripida che avrebbe condotto in pochi anni dalle buffe imitazioni e dai giochi per strada alla metanfetamina fatta entrare a scuola, al carcere giovanile. La vita dietro le sbarre divenne la tremenda routine, divenne la costante di Brian: quei reati commessi in gioventù trovarono il modo di amplificarsi, di generare un circolo vizioso apparentemente senza via d'uscita. All'inizio era la voglia di "andare sempre più veloce", poi erano le svastiche tatuate sulle mani e il suprematismo bianco, il legame con le gang, il carcere e l'isolamento. Il cerchio però non poteva chiudersi così: le cose che li rendevano identici - il calcio, il 7 sulle spalle, la voglia di scherzare e prendersi in giro - erano soltanto una vecchia polaroid sbiadita, non poteva andare così per Megan e Brian.
La strada per il riscatto si combatteva su due fronti divisi ma connessi: Megan cresceva come calciatrice, arrivava sul tetto del mondo per due volte e portava in alto la sua bandiera, Brian iniziava a prendere le distanze da ciò che lo fece precipitare nell'abisso. Coprì quelle svastiche sulle mani, si riavvicinò alla famiglia ed elesse di fatto Megan a suo riferimento, lei (che per tanto tempo lo aveva visto come un faro) divenne l'esempio da seguire. Trovare il coraggio necessario per combattere battaglie pubbliche, battaglie dall'eco mediatica dirompente, richiede la corazza di chi ha preso parte a ben altre battaglie, di chi ha vissuto da vicino i temi dell'emarginazione, dell'omofobia e della violenza. Spirito libero cresciuto in un contesto in cui il diverso era da catalogare, da additare, una realtà pronta a giudicare e non ad accogliere: Megan ha dimostrato di lottare affinché, a livello nazionale, non trovasse amplificate tutte quelle storture vissute sulla propria pelle fin da ragazzina. Eppure "è solo una calciatrice", ed è proprio qui il centro della questione, la ragione del suo essere diventata icona al di là dello sport. Non si tratta della singola battaglia ma di un presupposto: tu, persona popolare e influente, hai l'occasione di indirizzare quel tuo successo e quella tua fama senza vergognarti di entrare nel sociale, di toccare temi spinosi, di esporti in prima persona.
Hai anche, anzi soprattutto, l'occasione di denunciare le contraddizioni dei colori che tu stessa indossi: il tuo Paese ti ha voltato le spalle tante volte e volta le spalle ai più deboli, a chi rimane indietro, continua ad accettare logiche di violenza e sopraffazione riportando in auge temi che credevi fossero figli di altri tempi, come la segregazione, il ghetto, il razzismo. Se nella sua comunità e nella sua famiglia aveva rappresentato quella voce critica ma giocosa, vivace nel prendere posizione e mai sottomessa, lo stesso spirito critico e pungente lo ha saputo trasferire in un contesto più vasto, tale da conquistarsi copertine e riconoscimenti anche al di fuori dello sport e da diventare a tutti gli effetti un simbolo. Un simbolo anche per chi rivendica pari dignità tra calcio maschile e femminile, per chi si augura che l'omofobia nel mondo del pallone possa essere superata. Il tutto in un momento in cui, anche osservando i colleghi calciatori e sportivi in assoluto, è emersa a tratti una nuova volontà di prendere coscienza del proprio ruolo e di rivendicare la possibilità di esprimere la propria posizione: i giocatori di Premier League pronti a inginocchiarsi prima delle partite, le tante dimostrazioni di vicinanza alla causa BlackLivesMatter e la scelta di mettersi in gioco in prima persona come nel caso di Rashford e della sua battaglia per concedere pasti gratis ai bambini in difficoltà economica. Tante tracce diverse e tanti frutti che portano anche la firma di Megan Rapinoe, una campionessa sul campo e un pungolo costante che ricorda ai suoi colleghi di avere una voce potente e di avere soprattutto un titolo per iniziare a farla sentire.