Kazuyoshi Miura ci mette davanti alla relatività del tempo

Kazuyoshi Miura
Kazuyoshi Miura / Hiroki Watanabe/GettyImages
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In rare e fortunate circostanze i fatti riescono, con efficacia superiore a quella dei principi o dei ragionamenti, a dimostrare le realtà nascoste dietro a un concetto: la relatività del tempo, per essere definita, trova ad esempio una sponda eccezionale nel percorso di Kazuyoshi Miura e nell'ironico distacco con cui oggi possiamo guardare a quel CT giapponese che - ai Mondiali del '98 - lo tenne fuori dai convocati poiché ormai "non riusciva a trovare uno spazio per lui". Cosa potrebbe essere nel 2022 un calciatore che qualcuno considerava già "troppo vecchio" nel 1998, che veniva già ritenuto fuori corso 24 anni fa?

"Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo" canta Caparezza in Mi fa stare bene, tracciando di fatto il senso di una rivalsa che supera miracolosamente i classici confini di una carriera professionistica nel calcio e approda a una forma diversa di esperienza. Sapendo osservare in profondità, tra le righe, avremmo potuto intuire come quel percorso fosse esterno ai binari predefiniti del tempo senza dover aspettare il 2022, lo avremmo potuto capire fin dall'inizio della storia: 40 anni fa, nel 1982, un quindicenne Kazuyoshi, scelse di eludere i diktat familiari per raggiungere il Brasile e scelse di farlo quando era "troppo giovane".

Kazuyoshi Miura, Abdulrahman Al Haddad
Un giovane Miura in azione / Etsuo Hara/GettyImages

Troppo giovane, troppo vecchio

In quei "troppo", in quel difetto e in quell'eccesso, troviamo la lente che ci permette oggi di osservare un intero percorso sportivo (tutt'ora in atto, tutt'ora in evoluzione) staccandoci da tutto ciò che, di norma, ci aspetteremmo da un atleta. Se ci limitassimo poi a farne una normale storia di pallone potremmo ridurre tutto a quelle 10 reti segnate complessivamente negli ultimi 10 anni, potremmo metterci lì a sindacare sul fatto che arrivi da un'esperienza in prestito in quarta serie giapponese.

I numeri potrebbero raccontarci, in sostanza, di un dolce contentino dato forzatamente a chi non vuole rassegnarsi al tempo che passa, di una pacca sulla spalla data a chi (contro ogni evidenza) non comprende quando è ora di farsi da parte. Al contrario, però, si ragiona di un percorso sportivo e umano dotato di un profondo senso di rivalsa, di un radicale e rivoluzionario (quasi eretico) gusto per ciò che va nella direzione in cui non doveva andare.

Proviamo del resto a immaginarci in visita a Marassi da un altro tempo, dal 2022 al 1994, pronti a provocare i genoani: "Belìn, ma lo sapete che Kazu Miura nel 2022 giocherà ancora?". Proviamo anche a immaginarci in sala stampa nel 1998, di fronte al CT del Giappone Okada, pronti a porre la nostra domanda: "Mister, che ne pensa dell'imminente approdo di Miura in Portogallo a 55 anni?".

Proviamo a figurarci nella mente cosa avrebbe pensato la famiglia di fronte a quel quindicenne ossessionato dal calcio, malato di pallone, sapendo che quella fuga in Brasile non sarebbe stata un capriccio di gioventù, una follia di chi aveva perso il contatto con la realtà, ma - al contrario - un richiamo ineludibile, un solco già tracciato in profondità nella biografia nell'uomo di domani.

Una pacifica rivalsa

Lo stesso percorso, in altri continenti e con altri protagonisti, avrebbe un volto diverso e differenti connotati. Ci racconterebbe forse di un attaccamento viscerale al proprio ego, si rifarebbe alla necessità vitale di sentirsi protagonisti assoluti e per sempre incensati, senza poter sopportare l'idea di un sipario che si prepara a chiudersi.

Qui, con Miura, troviamo invece un senso pieno e coerente anche grazie al contesto culturale da cui King Kazu arriva: individuiamo un seme straordinario già nell'incipit di quella storia, con la fuga verso un Brasile vissuto in Giappone (negli anni '80) come vero eldorado del pallone.

Scopriamo uno spazio per l'onore della sconfitta o del "fallimento", ripensando ad esempio al percorso in Serie A col Genoa, e al contempo troviamo in quello stesso episodio un segno di quanto Miura abbia fatto epoca pur senza imporsi sul campo in Italia: primo giapponese a giocare in Serie A, un affare quasi profetico rispetto a un calcio diverso, rispetto a quel che sarebbe venuto nei decenni successivi.

Kazuyoshi Miura
Il primo giapponese in A / Alessandro Sabattini/GettyImages

Anche in questo caso, a posteriori, per carpire quel senso di rivalsa non serve attraversare in toto questi 40 anni ma basta, ancora una volta, concentrare l'attenzione sugli albori del percorso: lo stesso periodo brasiliano (dal 1982 al 1990) porta in sé la grandezza di un sogno, una forma di utopia, e il successivo rischio di una rapida disillusione. Da un lato la fatica di emergere e brillare, dall'altro una naturale scorza, un'armatura indissolubile che gli consentiva di lavorare a oltranza e di farlo a prescindere dai risultati immediati. Risultati che, ripercorrendo la sua era brasiliana, portano il nome di club come Palmeiras, Coritiba e Santos.

Tra passato e futuro

E scopriamo poi, nel ritorno in Giappone, l'impronta decisiva di quel sogno adolescenziale sull'intero sistema calcistico del Paese: la nascita della JLeague si lega a doppio filo all'identikit di Miura, assieme al prezioso contributo di campioni provenienti da Europa e Sudamerica. La nascita del campionato giapponese come lo intendiamo oggi non può prescindere da quella stessa storia e, da questo punto vista, Miura continuerà a giocare anche quando (tre un'altra cinquantina d'anni) non lo farà effettivamente più.

Il presente è lontano dal periodo dei pionieri, profondamente distante dai viaggi giovanili affrontati senza il benestare della famiglia (con tutto da perdere e una valigia di sogni). Si tratta sì di un viaggio intercontinentale e dell'ennesimo colpo di scena, a ben 23 anni dall'ultima esperienza europea (con la Dinamo Zagabria, allora Croatia Zagabria), ma i presupposti sono differenti: Miura, al di là del prestito ai Suzuki Point Getters, è ancora di proprietà dello Yokohama FC, i cui azionisti di maggioranza sono gli stessi dell'Oliveirense.

E proprio da qui - è ormai ufficiale - si riallaccia il filo che lega Miura al calcio europeo, dalla seconda divisione portoghese (dunque sempre dal professionismo). Una nuova tappa di una storia davvero infinita, un capitolo inedito di un romanzo che - non da oggi - continua a stupire, una scheggia impazzita che ridiscute certezze apparentemente salde, come il tempo stesso.