Il VAR e le sue "trappole" inevitabili: interpretazione e regolamento

Una vasta zona grigia rende ancora centrale il peso della soggettività.

US Lecce v AS Roma - Serie A TIM
US Lecce v AS Roma - Serie A TIM / Maurizio Lagana/GettyImages
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Esistono situazioni, rare quanto consolanti, in cui l'ausilio della tecnologia riesce ad affermarsi e a dare prova innegabile della propria efficacia nel calcio: in questo senso Genoa-Frosinone ci ha fornito un esempio valido di quanto il VAR possa risultare provvidenziale e sciogliere situazioni critiche e oggettivamente complesse. Situazioni oggettive che in campo risultano di lettura difficile, per il poco tempo a disposizione o per una prospettiva ingannevole, ma che richiedono giusto un'occhiata più approfondita per chiarire ogni dubbio. Si tratta per certi versi dell'optimum, di una condizione quasi utopistica da ottenere in un contesto che - invece - fa dell'eccezione e dell'ambiguità il proprio pane.

Dalla condizione ideale a quella reale

La trentesima giornata di Serie A ci ha fornito esempi lampanti (ben lontani dal suddetto optimum ideale) di quanto il tema dell'interpretazione resti cruciale nell'operato di un arbitro e di quanto talvolta il VAR abbia "le mani legate" non potendo individuare un errore conclamato o non potendo eludere nodi di regolamento. Il primo caso in grado di esprimere pesantemente il ruolo del "fattore umano" e della soggettività riguarda l'intervento su Zalewski in Lecce-Roma, con Falcone e Blin franati addosso all'esterno giallorosso dopo che quest'ultimo aveva giocato il pallone in area.

Il nodo retorico della vicenda, quello che rende ancora cruciale il discorso della soggettività e della valutazione arbitrale, riguarda la dinamica dell'azione e il fatto che Falcone abbia colpito prima il proprio compagno di squadra per poi franare sul polacco. Tale aspetto fa sì che, a conti fatti, la scelta di non dare rigore possa essere in qualche modo giustificata, senza dunque rendere necessario l'intervento del VAR. Al contempo anche l'eventuale assegnazione del rigore avrebbe trovato più di un appiglio favorevole alla tesi: anche in quel caso non sarebbe stato errore in senso stretto, considerati altri aspetti in grado di spiegare la scelta.

Una vasta zona grigia

Una condizione che ci allontana dunque da oggettività e chiarezza, rendendo ogni singolo episodio (ma nessuna aveva promesso qualcosa di diverso) ancora profondamente legato alla scelta istantanea del direttore di gara. Situazione ancora diversa da quella, particolarmente intricata, emersa in Inter-Empoli. In questo caso non è il tema della soggettività e dell'interpretazione arbitrale a fermare il VAR ma il fatto che - da regolamento - il rilancio di un difensore rappresenti una giocata, tale da condurre a una nuova azione.

Non si tratta insomma di ritenere regolare la posizione di Thuram ma di sottolineare come, una volta rilanciato il pallone da Bereszynski, il VAR non possa più aver voce in capitolo sull'azione precedente (per quanto cruciale per portare poi a quella del gol, come sottolineato da Nicola). Si entra dunque in un ambito il cui in termini di regolamento diventa "corretto" un momento di gioco che corretto teoricamente non sarebbe, considerata la mancata segnalazione del fuorigioco precedente.

Una vasta area grigia che appartiene necessariamente alle valutazioni di campo, aspetto ineludibile legato all'estrema differenziazione tra le azioni di gioco e alla possibilità (all'interno della stessa azione) di trovare fattori a favore oppure contrari a una certa tesi che si vorrà dimostrare. L'ambiguità che ne emerge richiede come unica vitale soluzione quella dell'uniformità e della coerenza: un po' quel che sottolineava, insomma, De Rossi al termine di Lecce-Roma.

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