Il calcio sceglie male i suoi mostri: il paradosso di Astutillo Malgioglio

Pallone in rete
Pallone in rete / Steve Powell/GettyImages
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Una ricerca fallimentare di immagini che ritraggano Astutillo Malgioglio, in campo come fuori, suggerisce già qualcosa su quanto il portiere piacentino, classe 1958, sia stato riconosciuto dal mondo del calcio, abbia lasciato un impatto effettivo sul pallone nel nostro Paese.

Non si tratta però di capire quanto, tecnicamente, Malgioglio abbia o meno inciso nelle sue avventure sportive (tra buone parate e interventi meno riusciti) bensì di afferrare il paradosso drammatico di una vita vissuta pienamente, sostenendo gli altri e mostrando il vero senso dell'empatia, in rapporto a una percezione distorta, contraddittoria, da parte del mondo del pallone.

Può cioè la sensibilità di uomo rappresentare un limite, un difetto da correggere e criticare, nel costruire la sua immagine di calciatore? La logica vorrebbe dirci di no ma i fatti, e le parole del protagonista di questa storia, affermano in modo perentorio il contrario: prodigarsi per gli altri, vivere immersi nella solidarietà e nella condivisione, era talmente coinvolgente e umanamente decisivo da segnare un corto circuito con la realtà del calcio. Questa realtà chiedeva il conto, voleva attenzioni esclusive, pretendeva di essere totalizzante.

Il calcio: amante totalizzante

E non si tratta qui di una folgorazione arrivata sul finire di una carriera, col viale del tramonto già all'orizzonte, ma di semi ben piantati nel percorso di una vita e di incontri, giornate vissute al di là del campo di allenamento, formative in modo profondo già nelle primissime fasi di una carriera da calciatore professionista. Parliamo cioè del 1977 e di un Malgioglio diciannovenne già titolare con la maglia del Brescia, in Serie B.

Un amico lo portò in un centro per disabili in un giorno che, già in quell'istante ma ancor più a posteriori, segnò un punto di non ritorno ben più di una parata decisiva, di un'uscita attenta o di un pallone che scivolava in rete. Maglioglio stesso ha descritto come "un pugno nello stomaco" quell'incontro: affacciarsi su un mondo di emarginazione, di vite tenute ai confini della società, di storie familiari complesse, mosse qualcosa nella mente e nella coscienza di un ragazzo che, già in famiglia, aveva saputo comprendere le virtù di un impegno sociale diretto (non vissuto soltanto col portafogli).

Un seme ben piantato, appunto, non solo come impatto emotivo e come pietà umana, naturale reazione di un momento: Astutillo iniziò a voler diventare competente, a volersi immergere da dentro in quel mondo, non come privilegiato che (per caso e per incidente) si trovò a passare di lì, lanciando un moneta a chi la chiedeva. Ed è forse qui che si trova lo snodo fondamentale, nella necessità e nella scelta di vivere un mondo in modo diretto, personale, sporcandosi le mani e attivando la mente: una sorta di "tradimento" per un calcio che, invece, chiedeva e chiede ai suoi protagonisti una partecipazione totalizzante, senza tregua.

Assurde contraddizioni

Come si è tradotta negli anni questa richiesta implicita, questa tendenza invadente del pallone? Non è servito molto tempo affinché l'equilibrio si rivelasse precario, una coperta troppo corta da strattonare da una parte e dall'altra.

La carriera del resto non era quella di chi praticava il calcio solo per diletto, come vezzo in mezzo alle cose serie: si trattava di un portiere capace di imporsi tra i migliori della Serie B, col Brescia, coi primi ostacoli e i primi paradossi che presentarono il conto proprio alle Rondinelle (con cui visse anche un campionato da titolare in Serie A).

Con Perani in panchina, infatti, emersero già le prime assurde contraddizioni: l'impegno fuori dal campo, l'attività presso la fondazione ERA77 da lui fondata, venne individuato e additato come una forma di "distrazione", come un richiamo diverso dal campo e dunque, di per sé, colpevole. Il tutto nei confronti di chi è sempre stato riconosciuto come professionista esemplare, quello che "non salta neanche un allenamento", aspetto che si rivelò poi fondamentale anche per altre tappe della sua carriera.

Entrando nel merito di ERA77 (acronimo che comprende i nomi della figlia Elena, della moglie Raffaella e quello dello stesso Astutillo Malgioglio) lo stesso ex portiere la descrive come palestra in cui offriva terapie gratuite ai bambini disabili, di fatto si trattava di un centro in cui ci si occupava dei bambini distrofici e del loro recupero motorio, una causa che Malgioglio non visse come ospite casuale ma come figura formata e competente.

L'incubo e la voglia di smettere

L'apice delle contraddizioni emerse però nel corso dell'esperienza capitolina, in particolare segnò la sua fase decisiva nel passaggio dalla Roma alla Lazio: dopo due stagioni come secondo di Tancredi in giallorosso, con Liedholm che aveva saputo apprezzare anche il lato umano del portiere piacentino, si trasferì sulla sponda biancoceleste della Capitale, in Serie B, tornando titolare ma vivendo il capitolo più provante, per certi versi devastante della sua parabola calcistica. Un punto di non ritorno.

L'episodio salito agli onori della cronaca dice tanto, racchiude il senso di un rifiuto da parte di un certo calcio (tossico) nei confronti di chi intossicato non era: il momento della Lazio era complesso, c'era aria di contestazione, e il 9 marzo 1986 in occasione della sfida contro il Vicenza una parte dei tifosi presenti puntò proprio su Malgioglio la propria rabbia cieca, con cori offensivi rivolti verso la famiglia e verso i bambini disabili di cui ogni giorno si prendeva cura, "Tornatene dai tuoi mostri", un ritornello che supera ogni immaginazione, uno striscione tanto dirompente da condurre il portiere a togliersi la maglia, a gettarla, a sputarci sopra.

Sputi e rabbia non erano certo un'esclusiva di quel momento: un articolo di Repubblica datato 16 marzo 1986 cita infatti aggressioni e offese nei confronti di Maglioglio stesso, una macchina sfasciata, sputi in faccia, offese alla moglie e alla figlia. Una quotidianità tale da condurre allo scontato divorzio col club e al pensiero di lasciar perdere, di accantonare quel calcio traditore per concentrarsi su ciò che davvero contava.

Lotar Matthaus, Jurgen Klinsmann, Andreas Brehme, Giovanni Trapattoni
Il Trap in nerazzurro / Alessandro Sabattini/GettyImages

La mano del Trap

L'epilogo della storia sembrava dunque scritto, con un folle rifiuto da parte del mondo del calcio nei confronti di chi si era tenuto alla larga dal rischio di diventare "solo" un calciatore, ma come spesso accade (in una sorta di esercizio immediato di karma) emerge quell'evento o quell'incrocio che risolleva le sorti della storia, che le dona altri colori.

Il ruolo di Giovanni Trapattoni in quel 1986 non fu quello del semplice allenatore che individua un affidabile secondo su cui puntare, alle spalle di Zenga: il Trap, come riferito poi dallo stesso Malgioglio, apprezzava le doti umane del portiere e il suo impegno fuori dal campo, ritenendolo una figura importante, da preservare in uno spogliatoio e in un mondo che, nell'insieme, non poteva che trarre un esempio di vita.

Gli anni all'Inter, cinque stagioni condite da uno Scudetto, arrivarono all'epilogo soltanto con l'addio dello stesso Trap e videro Malgioglio incrociare nuovamente i tifosi della Lazio, a Roma: il tentativo di superare quel gesto dell'86, portando un mazzo di fiori sotto la curva, condusse soltanto a un nuovo affronto, a oggetti scagliati in campo, all'ennesima manifestazione assurda di rancore.

Niente che offuschi comunque l'esperienza vissuta all'Inter, al di là dello Scudetto: anni in cui Malgioglio si sentì rispettato, con compagni di squadra come Klinsmann che lo seguivano anche nelle sue attività fuori dal campo e con quella fiducia che, troppo spesso, era venuta meno.

Ufficiale dell'Ordine al Merito

Faccende del genere, situazioni in cui i singoli uomini fanno la differenza e lasciano il segno ben più di una massa rumorosa, hanno già un compimento e un significato che basta a sé, senza necessità di un timbro ulteriore o di una legittimazione.

La recente decisione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insignirlo del titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana «per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell'assistenza e dell'integrazione dei bambini affetti da distrofia», è un passaggio che trova oggi un Malgioglio 63enne accogliere la notizia con l'umiltà di chi non si sente eroe ma, al contrario, vive di riconoscenza.

Riconoscenza verso chi, fin da quel pomeriggio in un centro disabili di 44 anni fa, gli ha permesso di costruire un senso che andasse al di là di una parata, al di là di un minuto in più in meno da titolare, dei fischi di migliaia di persone, di un oggetto che (tirato in campo) resta semplicemente lì, senza peso, anche quando ti colpisce in faccia.


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