Gianluca Vialli, la resilienza ha ritrovato un volto vero

Gianluca Vialli
Gianluca Vialli / Laurence Griffiths/GettyImages
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Ci sono parole che, in un dato lasso di tempo, s'impennano e perdono il loro senso. Sull'onda di una moda o di un meccanismo che s'inceppa si arriva a smarrirne il valore, a svuotarle, fino a farne un marchio da sfoggiare.

Dai dizionari passano all'inchiostro dei tatuaggi, alle cose dette distrattamente. E Resilienza, lo sappiamo, è la regina delle parole smarrite. Un po' come un supporto improvvisato messo sotto al tavolo che traballa, come un mezzo di fortuna, la si adopera per tappare i buchi, la si butta lì perché sembra starci bene o far risuonare le corde giuste. La si tatua accanto a un dragone o a un'arcana parola in caratteri esotici, ci si allontana da quel che s'intendeva.

Il senso smarrito

Accade poi che gli eventi sappiano insegnare o rieducare all'accezione più sincera di un termine, succede che l'equilibrio si ristabilisca attraverso una storia o un volto, attraverso un percorso umano. Gianluca Vialli ha saputo trovare, nei suoi ultimi anni di vita, una chiave diretta e valida per insegnare qualcosa senza volerlo fare, di percorrere un immaginario alternativo rispetto alla consueta retorica.

Lo ha fatto tramite il linguaggio e il comportamento, abbandonando un lessico di battaglia e di aggressione per sposare (nella lotta) forme più morbide e diplomatiche di resistenza. Potremmo riferirci al sorriso, agli abbracci con Mancini, alla partecipazione vittoriosa agli Europei. Lo sguardo però si rivolge ancor di più alle dichiarazioni e a ciò che rimane scritto: "Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare".

E ancora: "Il cancro è più forte di me e se lo combatti perdi. Io non ci sto facendo una battaglia, perché non credo che sarei in grado di vincerla". Le parole di Vialli, per la docu-serie Sogno Azzurro, spostano dunque in modo dirompente la narrazione di un dramma personale, ridefiniscono i confini di quella retorica che vorrebbe l'uomo come arcigno battagliero, con la spada tratta, in atteggiamento rabbioso e ostinato.

Gianluca Vialli, Roberto Mancini
Gioia azzurra / Chris Brunskill/Fantasista/GettyImages

Un racconto, quello consegnatoci da Vialli, che non sa mai di resa e rassegnazione ma che racconta di una consapevole capacità di flettersi, di accompagnare quel che accade, senza strappi. Qualcosa che del resto si può ritrovare anche nel comunicato di poco meno di un mese fa, quello con cui Vialli si è congedato dall'esperienza in azzurro: "Al termine di una lunga e difficoltosa trattativa con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L'obiettivo è quello di utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia, in modo da essere in grado al più presto di affrontare nuove avventure e condividerle con tutti voi. Un abbraccio".

Più delle parole

Un fatto di linguaggio, di scelta delle parole, che trasmette però tanto altro, un messaggio morbido nei modi ma - appunto - dirompente nella sostanza profonda. Non si tratta del resto, altrimenti non funzionerebbe, di parole giuste studiate a tavolino ma dell'espressione di quel che esisteva già, non soltanto nel momento della malattia e della sofferenza. Potremmo del resto ricollegarci a quanto accadde nella prima fase dell'esperienza alla Juventus, dove Vialli arrivò come calciatore più pagato di sempre (a livello di cartellino).

Roberto Baggio and Gianluca Vialli both of Juventus FC
Baggio e Vialli / Shaun Botterill/GettyImages

L'impatto non fu dei più semplici, anche per un mero discorso di concorrenza e di gerarchie: serviva, insomma, adattarsi e flettersi in base alle esigenze e alle circostanze. Torniamo al 1992, in particolare al dicembre di quell'anno, e a una diatriba verbale piuttosto accesa tra il tecnico bianconero Trapattoni e il CT azzurro Sacchi: in ballo, appunto, c'era il ruolo di Vialli. Il Trap, in quel frangente, vide nell'ex sampdoriano proprio quelle doti di adattabilità e intelligenza: "Lui sa pressare, è intelligente, passa il pallone di prima, insomma è un centrocampista nato. Deve soltanto abituarsi al ruolo. Luca è d' accordo, tra noi il dialogo è chiaro, si tratta di una soluzione da tenere presente".

La Repubblica, sul finire del 1992, parlò di un Vialli "meno bomber e più gregario" per descriverne un utilizzo diverso da quello sperimentato fin lì in carriera, per immaginarne insomma una convivenza con attaccanti del calibro di Baggio, Ravanelli e Casiraghi. Al di là degli sviluppi successivi di un'idea, quella del Trap che non si è tradotta effettivamente in un cambio definitivo di ruolo, è evidente come già in quel 1992 (da calciatore più pagato di sempre) Vialli dimostrasse tutta la propria capacità di plasmarsi, di seguire il flusso degli eventi, senza l'ombra di una resa ma con la voglia di attraversare con generosità quel che non dipende da noi.