Errori arbitrali e polemiche: si può parlare di sudditanza psicologica? L'analisi

L'arbitro Pasqua
L'arbitro Pasqua / Jonathan Moscrop/Getty Images
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L'espressione sudditanza psicologica rimanda a tempi in cui si individuava nella Juventus il totem intoccabile del calcio italiano, tale da ribaltare norme e spostare decisioni in modo indiretto grazie al peso del proprio potere e della propria storia politica oltre che sportiva. In sostanza il presupposto, volendo appunto dare un valore a quel meccanismo, risiedeva nel fischio più "facile" quando si trattava di concedere un rigore ai bianconeri e in pesi e misure che, nell'arco della stessa partita, variavano in base alla squadra da premiare o sanzionare.

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Ronaldo e Cragno / ALBERTO PIZZOLI/Getty Images

Oggi il dibattito si è spostato e non prevede più un singolo pilastro contro cui scagliarsi, riguardando via via dinamiche diverse e squadre differenti. L'ultima giornata di Serie A andata in scena, la ventisettesima, ha regalato diversi spunti per riflettere su ciò che porta un direttore di gara a una data decisione: basti pensare all'intervento a dir poco incauto di Cristiano Ronaldo su Cragno, sanzionato col giallo, e alle proteste del Milan per un possibile rigore non concesso per intervento di Bakayoko su Theo Hernandez nel finale. Al di là dei singoli episodi e della stretta attualità, però, si può davvero parlare di sudditanza psicologica da parte del direttore di gara? Se volessimo intenderla come la propensione sistematica e continua per una singola squadra, evidentemente, la risposta sarebbe negativa. Lo dimostra del resto il fatto che ogni tecnico e ogni tifoso ritiene (guarda un po') che la propria squadra sia quella bersagliata e che le altre siano spinte con favore.

Escluso dunque un possibile senso occorre però spostarsi altrove, considerare un fattore banale ma non troppo: l'arbitro, neanche nel momento di maggiore lucidità e serenità di giudizio, non è una macchina. I fattori tali da influenzare sono infiniti ed è probabile che, in parte, uno di questi riguardi anche il prestigio e il nome di questo o di quel calciatore: è ovvio che non dovrebbe essere così e che, esplicitamente, non potrà mai passare come messaggio ma, al contempo, un direttore di gara (in quanto essere umano) può ragionevolmente avvertire il peso di chi gli si para davanti. E non è per forza un fattore positivo: la fama di un calciatore o di un tecnico può essere anche sgradevole, talvolta anche figlia di un pregiudizio, e allora ecco che esiste il calciatore ritenuto simulatore (a priori) o quello che, qualsiasi cosa faccia, rimedia il giallo una domenica sì e l'altra pure.

Torino FC v ACF Fiorentina - Serie A
Al VAR / Chris Ricco/Getty Images

Dinamiche poco virtuose, certo, ma evitarle richiederebbe l'azzeramento totale delle conoscenze e dei pregiudizi di un arbitro sui calciatori che va a dirigere: pura utopia. Esistono poi altri meccanismi che viziano le decisioni, per forza di cose: la necessaria rapidità di valutazione, un VAR che potenzialmente può instillare dubbi anche deleteri e quindi far cambiare decisioni valutate meglio d'intuito, persino un meccanismo di compensazione che si propone durante la partita. Anche in assenza del tifo sugli spalti, col carico di fischi e di offese che ne consegue, esistono infiniti input capaci di spostare una decisione e di influenzare il direttore di gara: questo non va considerato come schiavo e succube di un sistema o di un ordine gerarchico, no, ma come essere umano (per quanto formato e preparato) e perciò costretto a scandagliare tra infiniti stimoli, non sempre virtuosi e fedelmente in linea col regolamento.


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