Di nuovo il suono della vergogna: magari fosse un problema politico

Koulibaly e Osimhen
Koulibaly e Osimhen / Laurence Griffiths/Getty Images
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Il ritorno dei tifosi allo stadio è stato reclamato a gran voce e accolto con entusiasmo dalle società, col fermo auspicio che in tempi ragionevolmente brevi non si parli più di capienza ridotta e che la spinta del pubblico possa tornare massima, ma al contempo ci si trova oggi a riallacciare un filo che non poteva certo strapparsi e sparire nell'arco di un anno, come per magia.

Ci si trova cioè a fronteggiare una triste a familiare deriva, denunciata in primis da DAZN nel post-partita di Fiorentina-Napoli: ululati ed espressioni razziste rivolte a Koulibaly, Anguissa e Osimhen, giocatori partenopei protagonisti del successo per 2-1 al Franchi in rimonta. Una questione che potrebbe essere facilmente derubricata come mero sfogo di rabbia, se non fosse che - di tanti modi - si finisce inesorabilmente per percorrere il più odioso possibile, senza poter trovare nella frustrazione sportiva un alibi credibile, una scusa accettabile. Al contempo sarebbe superficiale e fin troppo facile ridurre tutto a una questione politica, a una deriva connessa ai partiti e a posizioni individuali solide e definite: è tutto più fluido e perciò più complesso da sbrogliare.

Violente contraddizioni

Viviamo un tempo in cui gli opposti si alternano in una danza perversa, in cui tutto e il suo contrario si rubano la scena nell'arco di pochi istanti: tempi di odio violento rovesciato sui social ma anche tempi in cui il movimento Black Lives Matter si conquista la ribalta mediatica, tempi di rappresentazioni eclatanti di solidarietà accanto a una rabbia cieca e testarda che monta al di là di tutto, impermeabile a ogni istanza. Ci si odia tutti tanto ma quando si tratta di assegnare un Oscar o di realizzare uno spot televisivo è fatale che siano equamente rappresentate diverse culture, con delle quote definite a tavolino con cui fare i conti. Succede che la rappresentazione ideale di un tema si distacchi terribilmente dalla pratica quotidiana, da ciò che tutti hanno davanti quando non è un monitor a filtrare gli eventi. E più estreme si fanno le contraddizioni più il corto circuito si fa visibile e potente, più l'imbarazzo si fa eclatante di fronte all'ennesima riprova di quanto lo stadio sia per certi versi la sede elettiva di simili pasticci.

Kalidou Koulibaly
Koulibaly al Franchi / Gabriele Maltinti/Getty Images

La forza effimera del branco

Naturale per certi versi tracciare un collegamento del tutto diretto tra quel che accade in uno stadio e quel che succede, al contempo, nel terreno virtuale dei social. La chimera da inseguire, in un contesto come nell'altro, è quella della maschera e dell'anonimato: una liberatoria sensazione di poter esternare ciò che non si potrebbe, protetti dal branco informe o da un nickname, nascosti tra la folla (fisica o meno che sia). Il parallelismo stadio-social non deve però indurre all'errore, al pensiero secondo cui la questione sia d'attualità: è un discorso antico quello del gruppo che nasconde, un discorso che da un lato muove dalla voglia di costruire un "noi" in opposizione ad altro e, dall'altra parte, permette di deresponsabilizzarsi, di compiere azioni che in solitaria sarebbero percepite come rischiose ma che (magicamente) diventano così lecite e persino degne di onori all'interno del gruppo stesso. Dagli ululati razzisti ai cori più spinti verso una ragazza intenta a tagliare l'erba del campo, dai saccheggi in Autogrill alla mera ostentazione di forza verso chi è più indifeso: un mix distruttivo dalle radici psicologiche e solo marginalmente politiche in senso stretto.

Vitor Osimhen
Osimhen prima di Fiorentina-Napoli / Gabriele Maltinti/Getty Images

Niente di politico

Pensare di trovare in tutto ciò una traccia reale di quel che uno esprime in sede di elezioni è pura utopia, volontà di dare una spiegazione semplice a una domanda che tutto è fuorché banale. Fin troppo riduttivo credere che il razzismo abbia una matrice connessa a posizioni di estrema destra e che, dunque, il resto dell'universo del tifo sia immune a derive affini: così non è e difficilmente chi ha frequentato una curva, più o meno a lungo, potrà tracciare una demarcazione netta sulla base dell'appartenenza politica. La forza effimera del branco è del tutto trasversale e non consente classificazioni a priori: chi urla "scimmia" a Koulibaly può essere letteralmente chiunque, dal facinoroso che avresti paura d'incrociare la sera al più tiepido impiegato, dal tizio con le svastiche tatuate al cosiddetto padre di famiglia con pancia e stempiatura d'ordinanza, tanto da togliere ogni riferimento e da spostare il discorso dalla mera classificazione politica. Potrebbe inoltre avere ogni accento possibile, spostando la soluzione anche per chi pensa che esistano luoghi geografici permeati di razzismo e altri immuni: Firenze non è razzista, non lo è Milano o non lo è Roma, lo è però la testa di persone che camminano per quelle vie, senza trovare il coraggio di specchiarsi e finalmente ammetterlo. Un primo passo per iniziare a lavorarci su.


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