Dalle stelle alle stalle: lo Scudetto costa caro e può ancora chiedere il conto
Quando il problema principale era l'organizzazione della festa Scudetto dell'Inter a Milano c'era un pensiero, confinato in un angolino, relativo a questioni che il pallone lo conoscevano soltanto di sfuggita: sospensione di titoli in borsa, sequestri di capitale e un mondo dorato le cui crepe sembravano farsi sempre meno sottili. Ma come si può, di fronte alla Milano nerazzurra in festa dopo 10 anni di digiuno e dopo lo stradominio juventino interrotto, lasciare che la mente si arrampichi in sterili e freddi calcoli? Ecco dunque che parole come "crisi" e "ridimensionamento" andavano forzatamente in stand-by, lasciate in un angolo come si fa quando ci si vuol godere qualcosa che si è conquistato, mettendo da parte fantasmi passati o futuri che incombono.
Un indizio sinistro
Non è certo un mistero che Antonio Conte sia un tipo poco conservativo, poco propenso cioè ad adagiarsi comodamente sugli allori per accontentarsi dello status già raggiunto, prendendo serenamente quel che arriva. Si parla al contrario di un tecnico assetato di sfide, capace anche di passare attraverso dinamiche di conflitto interno pur di ribaltare una situazione, di prendere il toro per le corna. Il percorso svolto all'Inter dimostra del resto quanto l'approccio di Conte abbia pagato, tirando fuori dalla squadra quella mentalità vincente tanto auspicata, tale da rendere la vittoria come un traguardo sensato e non come un'entità astratta che doveva cascare dal cielo. Considerando il peso decisivo di Conte all'interno della crescita dell'Inter, fino al ritorno al successo in Serie A, va da sé che un addio risulti altrettanto pesante: ingenuamente, però, si poteva provare a confinare la scelta del tecnico in quel suo peculiare bisogno di nuove sfide, di spostare sempre l'asticella, in una sorta di "capriccio" connesso al personaggio. E invece no: a posteriori appare evidente come la politica di Zhang non fosse soltanto conservativa ma che, al contrario, il discorso sportivo (già come linea di principio) sarebbe stato il fratello minore di una spinta più forte, dalla logica dei debiti da saldare e dei conti da risanare. Non "squadra che vince non si cambia" ma "se ci saranno cambiamenti non sarà per una logica sportiva": un presupposto che, chiaramente, rende la decisione di Conte ben lontana dal capriccio, dalle intemperanze solite di un personaggio spigoloso. E le dinamiche dell'addio prossimo di Romelu Lukaku raccontano, di fatto, proprio questa storia.
Il sacrificio? No, un sacrificio
Quando di chiedono un sacrificio è difficile che tu possa esserne contento, più verosimilmente ti troverai costretto malvolentieri a compiere quel destino, convinto che sia uno sforzo che in qualche modo sarà ripagato o riconosciuto. L'addio di Achraf Hakimi, 7 gol e 10 assist al suo primo anno in maglia nerazzurra e in Serie A, aveva dunque in teoria il sapore amaro del sacrificio da compiere per poi guardare avanti: una richiesta, sostenuta dal credito di fiducia chiamato Scudetto, oltre la quale i tifosi avrebbero potuto tirare un sospiro di sollievo, spostando lo sguardo sul futuro. Del resto il Paris Saint Germain è una miniera d'oro e 60 milioni più 8 di bonus facilmente raggiungibili rappresentano una contropartita di tutto rispetto, quando quello è davvero il solo sacrificio pesante che si richiede per poter passare oltre. Qualcosa però nei piani successivi si è rotto e il famoso gioco degli "esuberi", di quegli elementi da piazzare, si è ridotto a un piano sviluppato sulla carta, senza fare i conti con un mercato bloccato, in cui ogni passo è più pesante e faticoso rispetto al passato, soprattutto nel contesto italiano.
La pietra dello scandalo
Riusciamo a immaginare la reazione di Antonio Conte di fronte a un messaggio del tipo "Mister abbiamo appena accettato un'offerta per Lukaku, buon lavoro"? No, e infatti Conte non è più lì proprio perché, alla fine, un potenziale messaggio del genere aleggiava da tempo. Se il discorso Hakimi poteva davvero spiegarsi nella logica del sacrificio necessario, in aggiunta ad altre uscite secondarie, l'affare Lukaku sposta in modo repentino e irrevocabile la questione. La sposta innanzitutto per il peso del belga nella stagione del ritorno allo Scudetto, come vero trascinatore e leader di una squadra anche al di là dei soli numeri (24 gol, 10 assist), ma la sposta ancor di più ricollegandosi alla bilancia delle scelte nerazzurre: area sportiva contro interessi diversi, che risiedono più in alto e che, di fatto, rendono monca la gestione di quel che dovrà accadere sul campo, del progetto necessario per guardare al futuro.
Un problema più profondo
Il problema è dunque più profondo, come tutte le questioni lasciate ferme in un angolo sperando che scompaiano da sole ma poi, alla lunga, si ingigantiscono e chiedono il conto (con gli interessi). Esiste cioè una potenziale spaccatura netta tra i progetti e i piani dell'area sportiva, dei dirigenti che si occupano di migliorare la squadra, e la proprietà: da un lato la convinzione di potersi muovere per limitare i danni, senza dunque piegarsi del tutto alle lusinghe del mercato, dall'altra parte la presenza di offerte che non si possono rifiutare, del bisogno di ritrovare necessariamente respiro a suon di milioni. Sì, perché la questione riguarda anche il dopo: si può superare l'idea che una squadra che vince non debba essere cambiata ma, di certo, diventa utopistico farlo se quanto si incassa non può poi essere realmente reinvestito. Un danno per la parte sportiva, di fatto il fulcro di una società, che non ha così modo di pianificare e di immaginare un'idea che vada al di là dell'occasione del momento, dell'irruzione sul mercato, che da un giorno all'altro, manda tutto all'aria.