CR7 vs Ibra: due modalità opposte di incanalare un ego ingombrante

CR7 e Ibra
CR7 e Ibra / MIGUEL MEDINA/GettyImages
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Una delle sfide principali e più ostiche per un campione, al di là dei record e dei riconoscimenti individuali, risiede nel necessario controllo di un ego che, per forza di cose, è divenuto via via più importante e accentratore: deriva anche logica quando diventi icona oltre che professionista, quando la tua presenza in sé è in grado di generare un indotto mastodontico per le casse di un club, quando insomma la tua dimensione e quella di una società calcistica diventano (almeno) paritarie.

Complesso percepirsi come un mero ingranaggio al servizio di una causa più grande, come uno dei tanti componenti di una rosa: il gioco è quello di tenersi in equilibrio tra le spinte dell'ego, appunto, e la convivenza con esigenze diverse, il tutto col monito della carta d'identità e del tempo che continua a scorrere.

Un elemento alieno

Di fronte a Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimovic appare illogico mettere in dubbio le doti professionali e l'abnegazione dei due verso il lavoro, un culto e una cura di sé di cui i due hanno saputo dar prova a più riprese, mostrando quanto l'aspetto anagrafico non infici in alcun modo sulla forma fisica e atletica, grazie a un lavoro maniacale su di sé e alla capacità di mantenersi profondamente disciplinati.

Esiste però, al di là di palestre ed esercizi, il tema della gestione mediatica di quell'ego smisurato: un piano che, ad oggi, vede CR7 e Ibra vivere su piani per certi versi opposti, con un effetto altrettanto differente rispetto a tifosi e addetti ai lavori. L'ultimo eclatante segno di insofferenza del portoghese nei confronti del Manchester United dice tutto: Cristiano Ronaldo, ai microfoni del Sun, non risparmia provocazioni anche pesanti, lo fa riferendosi sia a Rangnick ("non lo avevo mai sentito nominare") che all'attuale tecnico Ten Hag ("non lo rispetto perché lui non rispetta me").

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Ten Hag e CR7 / ADRIAN DENNIS/GettyImages

Un atteggiamento che rende chiaro quanto il portoghese, avvolto da quello stesso ego citato poco fa, si percepisca come un'entità in grado di giudicare chi sia o meno degno di allenare il club in cui milita, chi sia o meno degno di rispetto e di riguardo. Tutt'altro che un ingranaggio funzionale alla causa ma un elemento alieno che, finito in un dato contesto, arriva a favorirne lo sgretolamento, a minacciarne ogni possibile equilibrio (perlomeno agli occhi dell'opinione pubblica).

Una riflessione sulla storia dei Red Devils post-Ferguson è logica, senz'altro, ed è anche naturale che un elemento abituato a vincere come CR7 finisca per soffrire qualunque contesto che non appaia sufficientemente competitivo: si tratta dell'ovvio trauma dovuto alle finali di Champions tramutate in sfide di Europa League (vissute non necessariamente da protagonista). I toni e le modalità, però, spostano tutto dal piano della riflessione a quello dello scontro.

La prospettiva di Ibra

La prospettiva del muro contro muro, del giocatore talmente accentratore da poter sfidare un intero club, appare distante dall'ottica con cui Ibrahimovic si è calato nelle sue ultime stagioni da calciatore, costellate peraltro da problemi fisici e da un logico divario tra volontà e acciacchi da superare. Lo svedese cavalca da sempre il proprio ego con le armi dell'iperbole e dell'ironia, ponendosi in questo senso su un piano totalmente diverso da quello frequentato da CR7: le provocazioni, nel caso di Ibra, diventano sì un costante pungolo verso le realtà in cui si trova, senza però arrivare realmente a invadere le posizioni altrui.

Genoa CFC v AC Milan - Serie A
Ibra e Pioli / Getty Images/GettyImages

Una prova di acume e intelligenza peraltro riconosciuta da tanti tecnici che hanno avuto modo di allenarlo, da Pioli ad Ancelotti, pronto a sottolineare lo spessore umano di Ibra anche nella recente intervista a Che tempo che fa.

Lo svedese conosce perfettamente il proprio valore ma riesce, ed è riuscito, a plasmare il proprio atteggiamento in base al momento storico vissuto, in base al proprio effettivo impatto sul campo: la sua seconda avventura al Milan lo ha visto diventare guida carismatica e leader di un gruppo giovane, lo ha visto mettere al servizio degli altri la propria esperienza e la propria natura da condottiero senza però anteporre se stesso alla visione d'insieme. Un modo, insomma, più che mai costruttivo e persino altruistico di indirizzare quelle naturali spinte dovute all'ego di un campione.