Cosmi e la blasfemia nel calcio: cercando uno spazio privato in un circo mediatico

Serse Cosmi
Serse Cosmi / Emilio Andreoli/Getty Images
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Il ritorno di Serse Cosmi in Serie A ha certo riportato alla memoria di tanti ricordi un po' polverosi e acceso qualche nostalgia ma, al contempo, ha portato a galla in modo esplicito e diretto un tema che, a momenti alterni, torna a popolare l'agenda del calcio italiano: quello delle espressioni blasfeme punite con la squalifica. Cosmi, commentando appunto l'assenza forzata stabilita dal Giudice Sportivo per un'espressione blasfema nell'intervallo di Crotone-Torino, ne ha fatto una questione di principio: non è entrato cioè nel merito dell'episodio in sé ma ha spostato l'obiettivo più in alto, soffermandosi sulla norma che conduce alla punizione e osando anche un po' di più, rivendicando cioè la natura laica del nostro Paese.

Serse Cosmi, Davide Nicola
Nicola e Cosmi in Crotone-Torino / Maurizio Lagana/Getty Images

Queste le parole di Cosmi, nel dettaglio: "Il fatto che neanche quando rientri nel tuo spogliatoio tu non possa parlare o lasciarti andare significa che qui si è stravolto completamente...mi auguro che si torni presto a prendere in considerazione questo tipo di normativa per quanto riguarda la parola blasfema nella maniera giusta perché, fino a prova contraria, io credo di vivere in un Paese laico. Ci sarebbe da disquisire anche sul contenuto della norma, non lo voglio fare perché sennò entrano in ballo tutte le associazioni clericali possibili dell'universo, quindi mi attengo a una modifica. O modificano le norme o modificano le persone che stanno vicino, dentro gli spogliatoi". Le parole di Cosmi si muovono però su un doppio binario: da un lato il tecnico del Crotone è critico verso la norma in sé, verso cioè la possibilità di squalificare per espressione blasfema, d'altro canto però tocca un altro punto e, forse, il nodo della questione sta proprio lì.

In sostanza Cosmi rivendica la "dimensione privata" dello spogliatoio, o comunque degli spazi vissuti dal tecnico e dai giocatori con tanto di furore agonistico e di sfoghi annessi. Non è un discorso del tutto inedito questo e, di certo, non manca di una sua logica: l'espulsione ai danni di Marcello Lippi nel novembre del '98 condusse Azeglio Vicini, allora presidente dell'Associazione Italiana Allenatori, a fare un esposto al garante della privacy. In sostanza il punto non era solo la norma ma, ancor di più, la possibilità che uno sfogo del momento diventasse di dominio pubblico: l'esposto non ebbe il successo auspicato e tale punto di vista finì dunque per risultare sconfitto. Il tutto condito da un altro aspetto, al contempo degno di attenzione: l'Italia è l'unico Paese europeo in cui, di fatto, esiste un riferimento specifico alla blasfemia in ambito calcistico e, anche per questo, i protagonisti del nostro calcio risultano insofferenti a riguardo, sentendosi "imbrigliati" da un codice di condotta ritenuto illogico e lontano da quel che accade in campo.

Marcello Lippi
Marcello Lippi / Mark Metcalfe/Getty Images

Il tutto senza considerare un altro aspetto, forse prioritario, cioè quello dell'ambiguità: tante volte è successo che il giocatore e il tecnico di turno spiegassero di aver detto "Zio" e non "Dio", di aver proferito un "Perbacco" frainteso a posteriori. Si scivola cioè in un terreno scivoloso in cui occorre interpretare ogni singola parola di ogni singolo elemento in campo e nel tunnel, non senza dietrologia e non senza illazioni: complicato, su queste basi, poggiare una norma che risulti davvero equa e condivisibile. In un calcio poi sempre più mediatico, con telecamere che seguono ogni passo e ogni gesto, diventa utopistico immaginare una competizione sportiva priva di espressioni di quel tipo: l'appunto di Cosmi è interessante proprio per questo, come a chiedersi se esista ancora uno spazio "privato" di sfogo che non sia sotto l'occhio di un Grande Fratello pronto a sanzionare.


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