Il calcio vuole cambiare ma nessuno glielo ha chiesto: la vuota rivoluzione
Un signore di una certa età si avvia verso casa e, camminando, riflette sulle proprie scelte. Riflette perché, col passare dei giorni, si sta trovando a pagare il conto di ogni singola mossa azzardata: non avrebbe dovuto comprarsi quella macchina, neanche a rate, e avrebbe dovuto pensarci due volte prima di partire in crociera solo perché non voleva farsi parlare dietro, del resto ci stavano andando tutte le amiche della moglie, chi la sente poi. Adesso insomma, anche quando viaggia spedito a bordo del suo bolide luccicante, non sente tanto gli occhi invidiosi di chi lo incrocia per la strada ma avverte piuttosto la stretta dei debiti, il peso dei conti che non tornano mai. E la casa, la sua enorme casa, potrebbero addirittura portargliela via? Sempre impeccabile, curato e ben vestito, sa ancora come far voltare tutti quando entra in una stanza, non ha perso lo smalto del playboy, ma lo sguardo si fa via via più spento e pesante: così non può più andare, no. Sale le scale, apre la porta di casa, raduna moglie e figli attorno al tavolo e perentorio esclama: "Basta, so di aver sbagliato tutto, adesso le cose devono cambiare e ho deciso: mi faccio biondo e mi rifaccio il naso. Ah...e d'ora in poi chiamatemi Giancarlo".
E quel signore ricorda un po' il calcio. Lo ricorda perché, nonostante le primavere sulle spalle, piace ancora terribilmente ed è forte di una popolarità che non risente del tempo, lo ricorda ancor di più perché ha nascosto per anni la polvere sotto al tappeto e gli scheletri negli armadi, sentendo a un certo punto il battito dei propri segreti pronti a tornare alla ribalta. Ha deciso di riprendere in mano la propria vita, senza pensare che sia ormai troppo tardi, ma non ha la minima idea del punto da cui partire: la sta solo buttando "in caciara", provando a cambiare nome e colore di capelli per vedere l'effetto che fa.
Così il pallone ci tempesta ormai ogni giorno con proposte su proposte per "rinnovarsi", senza rendersi conto che, alla fine, nessuno glielo ha chiesto. Il calcio parte per una rivoluzione e si arma, correndo il rischio di trovarsi a fare a botte con se stesso o con un minaccioso nemico immaginario. In Italia torna a ritmo regolare l'idea dei playoff scudetto, perché alla fine l'NBA piace a tutti anche se si tratta di un altro sport, da altri angoli di mondo spuntano in via sperimentale suggestioni come funghi: rimesse laterali battute coi piedi, come nei giovedì sera di calcetto, ammonizioni che costringono allo stop provvisorio (perché la pallanuoto piace a tutti pure lei, anche se si tratta sempre di un altro sport), i cambi illimitati. E se cambiamenti connessi alla tecnologia in ausilio ai direttori di gara, VAR e goal line technology, risultano tutto sommato percorsi virtuosi e da tutelare (come potenziale garanzia in più di giustizia ed equità) diventa ben diversa la questione se si parla di dotare il calcio di tratti a lui alieni, di connotati che non gli appartengono se non come superflue protesi aggiunte a caso.
Principi reazionari e fin troppo orientati verso la tradizione? Può darsi. Rimane però chiaro il fatto che, se nel corso dei decenni quel signore ha saputo rapirci e conquistare la nostra attenzione, non sarà certo un nuovo colore di capelli o l'urgenza di somigliare a qualcun altro a risollevarne le sorti, a cancellare debiti e togliere scheletri dall'armadio. E chissà che forse, in realtà, non sia più virtuoso chi davanti allo specchio si riconosce e ripone la smania di dover diventare altro per poter migliorare, scappando dagli specchietti per le allodole e dalle soluzioni usa e getta, lasciando da parte le vuote rivoluzioni.
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