Il calcio ai tempi del Covid è una ferita: non sarà facile rimarginarla
Come una biglia che rotola inesorabilmente, posta su un piano inclinato, i mondo del calcio ha dovuto fare i conti con un graduale passaggio tra diverse fasi, una volta posto di fronte all'emergenza Coronavirus nei primi mesi del 2020. Dalla negazione, sentendosi in qualche modo impermeabile, fino alla presa di coscienza di necessarie contromisure via via più drastiche: campionati interrotti, porte chiuse, un calendario da ridisegnare combinando come nel Tetris, con grande difficoltà, tutte le singole tessere. Nei giorni della ripartenza, perlomeno dei primi segnali ufficiali in tal senso, è difficile ripescare la retorica degli inizi, "ne usciremo migliori" ha lasciato spazio gradualmente a "basta che se ne esca vivi" e anche lo sguardo del calcio sul futuro più prossimo porta in sé il peso di una convalescenza ostica, di ferite ancora non del tutto rimarginate e di un percorso di riabilitazione necessario.
UN GIOCO SOCIALE - Un discorso valido da qualsiasi punto si voglia osservare il mondo del calcio, innanzitutto dalla sua natura di gioco sociale ancor prima che popolare: l'emulazione e la condivisione sono parti essenziali e non accessorie, parti anestetizzate da un anno di distanza forzata, di fruizione mediata, virtuale. Lo stadio chiuso, già in sé, toglie ogni dimensione epica dal gioco: si può spingere lo show, si può tentare di vendere il prodotto al meglio, ma si tratterà comunque di una sua versione light, una beta in corso d'opera. La convalescenza è una condizione chiara nel momento in cui qualcosa di storicamente limitante (le porte chiuse) diventa normale e scontato, fino ad abituarsi: adesso toccherà riabituarsi alle voci, agli umori e alle esplosioni condivise di gioia (esplosioni maleducate per loro natura, poco inclini a mantenere le distanze). La finale di FA Cup vinta dal Leicester in tal senso ha regalato a tutti un antipasto: le grida di esultanza dei tifosi dopo il missile di Tielemans risvegliano dal sonno, ricordano di cosa si parla realmente.
L'ARENA VIRTUALE - Ancora non si tratta di bolge infernali, di stadi gremiti: sono piccoli passi, appunto, come quelli di chi deve imparare a camminare di nuovo. Ai gladiatori che si esibiscono di fronte a nessuno e alle imprese sportive passate sotto silenzio si aggiunge un'altra faccenda, probabilmente sottovalutata: l'arena si è spostata sempre di più sui social, divenuti via via sovraesposti, più centrali, inducendo presidenti e giocatori a interagire sempre di più con la rete, a dare un peso agli umori espressi da una tastiera e da uno smartphone. Un abbaglio non da poco, considerando che le grida sui social non sono fischi e non sono applausi ma, al contrario, rappresentano sussulti di chi pigramente manovra un dispositivo tecnologico senza particolare impegno o responsabilità: anche imparare a sentire di nuovo la voce del popolo calcistico richiederà una riabilitazione.
IL CALCIO SMARRITO - La dimensione sociale e umana del pallone fa da cornice poi a una ferita ancor più profonda o comunque complessa da rimarginare: il sistema calcio, a livello finanziario e istituzionale, esce con le ossa rotte e con un'identità da riscoprire, da ridisegnare. Lo si è visto dai bilanci sofferenti dei club, anche di primo piano, lo si è visto in modo emblematico di recente con la creazione di quel Frankenstein sportivo chiamato Superlega, tornato subito sul lettino dello scienziato che lo stava generando, sommerso dalla voce più profonda del calcio ma nato comunque da esigenze e problematiche reali. Non può essere casuale l'escalation di tensione in Lega, non può essere una coincidenza la rivoluzione sancita da una fruizione del calcio sempre più on demand, in cui le piattaforme streaming soppiantano il palinsesto televisivo in senso tradizionale. Tutti sintomi di un processo di ripartenza agli albori, una strada in salita che ancora non appare ben chiara all'orizzonte: il calcio, anche il calcio, dovrà reimparare a essere se stesso.
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