Il calcio è un amico che ti volta le spalle: Yekini, ascesa e caduta di un uomo

Il grido di Yekini
Il grido di Yekini / VINCENT AMALVY/Getty Images
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Immaginando un uomo che cammina barcollante, che per la strada quando fa notte non ha una casa in cui tornare, uno sguardo conosciuto ad aspettarlo, non riusciremmo ad accettare che, quello stesso uomo, sia stato qualche anno prima un nostro eroe. Riferendosi agli eroi si usano parole ricolme di retorica, celebrandoli si istituiscono premi, si organizzano serate, ci si riunisce spinti dalla voglia di esserci, quando questi sono ancora vivi o quando non lo sono più.

Capita di rado che un eroe finisca trasfigurato dal tempo e che i suoi tratti non siano più familiari, che precipiti dall'alto in modo lento ma inesorabile, fino ad andare giù, finendo in mezzo agli ultimi. La storia di Rashidi Yekini e la sua vita ci suggeriscono che suddividere il calcio in due schieramenti separati, chi ce l'ha fatta e chi ha fallito, sia una prospettiva parziale.

C'è, infatti, chi ha vissuto a pieno entrambi i lati, quello luminoso e quello oscuro, quello dell'onnipotenza e quello del crollo. Yekini, di professione bomber implacabile, è forse il calciatore nigeriano che più di altri ha interpretato e rappresentato l'ascesa della Nigeria a livello internazionale nel corso degli anni '90 dopo un decennio, quello precedente, vissuto ancora a distanza siderale dalla ribalta dei Mondiali (e senza mai qualificarsi).

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La Nigeria a USA '94 / TIMOTHY A. CLARY/GettyImages

Il gol, l'estasi e la preghiera

Ai Mondiali del '94 Yekini era l'esperto "fratello maggiore", già trentunenne, di una generazione di giovani fenomeni capaci di esplodere nel calcio europeo: da Finidi a Oliseh, da Amunike a Okocha, e portava in sé un bagaglio infinito di reti segnate in Patria negli anni '80, affiancato a un carico altrettanto potente di amore calcistico dei tifosi del Vitoria Setubal, club portoghese di cui Yekini fu il bomber dal '90 al '94.

Il destino volle che la prima rete della Nigeria ai Mondiali portasse proprio la firma di chi aveva trasportato un movimento calcistico emergente fino alla sua epoca di maggior splendore, volto di un crocevia che proprio in quei Mondiali americani sembrava poter portare oltre, salendo ancora di più.

Un gol che vale, oggi e in qualsiasi momento lo si voglia riguardare, ben più del mero dato statistico, seppur degno di sottolineatura: il peso di quella rete segnata a Dallas contro la Bulgaria si specchia nell'esultanza persino sofferta, liberatoria oltre che semplicemente sentita. Yekini aveva, in quel momento, spalancato un mondo inesplorato alla Nigeria del calcio, ponendo le basi per quel che sarebbe venuto dopo, quell'esultanza fotografava l'intreccio tra l'estasi del presente e la profetica consapevolezza che, domani, la gloria sarebbe fatalmente toccata ad altri, ai più giovani.

Quattro anni, una vita

Dal Cotton Bowl di Dallas a Parigi, nell'arco di quattro anni (una vita, calcisticamente parlando) la prospettiva si ribaltò, lo scenario cambiò di forma e lo fece senza un'ombra di pietà o di (questa sconosciuta) riconoscenza. Dalla passerella al baratro il passo è minimo, come se nel desiderio di ammirarsi si finisse per inciampare senza poi trovare una rete di salvataggio.

I Mondiali di Francia '98 vedevano ancor più netto il distacco tra quel totem che aveva fatto la storia, Yekini, e i giovani divenuti grandi, quelli che si erano affacciati sul mondo del pallone che conta e, a quel punto, intendevano prenderselo, salire ancora. Il dato anagrafico restava lo stesso ma, si sa, nel calcio i 35 anni possono già diventare sinonimo di viale del tramonto alle porte, numero già nefasto per chi, in una vita sul campo, ha già lottato, sofferto, viaggiato e pianto.

La forbice si faceva più ampia, dunque, ma nel 1997/98 le reti arrivarono comunque, con la maglia dello Zurigo, e la riconoscenza (ancora lei) era dovuta, anche solo per un retorico omaggio da parte del CT Milutinovic. In quel Mondiale Yekini avrebbe dovuto vestire i panni di un padre protettivo, forte del suo fisico imponente e del suo peso nella storia, pronto ad accompagnare una Nazione verso un destino luminoso, rassicurando i più giovani e motivandoli.

I fatti raccontano però altro, raccontano della trasformazione inesorabile da eroe a capro espiatorio, della dimenticanza e della memoria corta come cifre distintive del calcio: venti minuti nel 3-2 sulla Spagna al debutto, quindici minuti nell'1-0 contro la Bulgaria, un intero match nell'ultima e ininfluente sfida del girone, giocata per novanta minuti (e persa 1-3).

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La Nigeria a Francia '98 / OMAR TORRES/GettyImages

Il fantasma di un eroe

Poi la metamorfosi definitiva, la caduta: Nigeria-Danimarca, ottavi di finale allo Stade de France. Tanto più grande è l'ambizione, tanto più ci si solleva da terra, più il tonfo fa rumore e lascia storditi: Danimarca avanti dopo tre minuti, sinistro di Moller e Rufai battuto, lo stesso Rufai appena dieci minuti dopo non trattenne un calcio di punizione concedendo a Brian Laudrup l'occasione per lo 4-0, una doccia gelata. Nella ripresa arrivò il crollo, con il fulminante ingresso in campo di Sand (subito in rete) e col 4-0 firmato dal neo-milanista Helveg al 76'. Yekini era già in campo, era entrato poco prima, ma diventa oggettivamente illogico dargli il ruolo del colpevole, pensare che quelle reti subite portassero per qualche assurda ragione la sua firma.

Invece accadde proprio questo, quel fratello maggiore che avrebbe dovuto fare da appiglio sicuro, da uomo spogliatoio, venne subissato dai fischi della propria gente, come se davvero la sua età fosse una colpa, come se in quel momento fosse di troppo, un capriccio imperdonabile. Quando la rabbia e la frustrazione prendono il sopravvento, dopo la fine di un sogno, si dicono parole e si compiono gesti che di logico hanno poco: fu così in quel frangente, si trattava di un movimento cieco e autodistruttivo, ma i segni lasciati dai quei fischi furono veri, profondi, come nessuno dei presenti avrebbe effettivamente potuto immaginare, con una eco inesorabile.

Si tratta di un riverbero, quello dei fischi allo Stade de France, tradotto in lacrime nel post-partita, nel senso di un tradimento immeritato, ma si tratta ancor di più di uno strascico durato anni, incapace di scolorirsi, attenuarsi, farsi meno logorante. Il contrario, anzi. Era un tarlo che continuava a scavare, a farsi strada, ingrandendosi a dismisura una volta abbandonata la carriera da calciatore professionista, a 40 anni, col calcio europeo rimasto ormai un ricordo opaco, così come la gloria e gli onori sbandierati da chi conta. Il Toro di Kaduna, eletto a simbolo della Nigeria calcistica e a totem di un intero stato, divenne nello spazio di un Mondiale un vecchio signore troppo ingombrante, uno che nessuno sapeva dove piazzare, costretto a sentire l'eco della solitudine a ogni passo.

Quel che succede dopo, tramontato il calcio e tramontata la gloria, si trasforma nel suo racconto in leggenda: non la leggenda che si celebra e si ricorda, quella dei riconoscimenti e delle serate di gala, ma la leggenda sussurrata tra i vicoli, il racconto di un evento che forse si è visto oppure si è immaginato: un uomo che si trascina e che barcolla, un volto che si perde tra tanti e non viene più riconosciuto, la fuga impossibile da una maledizione. O forse semplicemente da una malattia o dal proprio stesso fantasma. Fino al 4 maggio del 2012.


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