Torino e quei "poteri forti" che ne chiedevano il fallimento
"Nessuno, oltre a noi, aveva azionato il Lodo Petrucci per salvare il Toro dalla scomparsa. Tutti quei cosiddetti tifosi VIP, tutti quei personaggi sempre pronti a dichiararsi granata sugli schermi televisivi o sui giornali, assolutamente fermi, inermi, inesistenti. Per loro il Toro poteva sparire, non mossero un dito".
A proferire queste parole è stato l'avvocato Pierluigi Marengo, capo della cordata che nel 2005 ha salvato il Torino dal fallimento.
Lo so, parlare già adesso di un fallimento sventato è uno spoiler grande quanto una casa. Ciò che però fa rabbrividire in tutta questa storia non è tanto il finale (che per fortuna è stato il migliore possibile) quanto il suo antefatto, l'insieme dei passaggi che l'hanno scatenata.
Poco fa abbiamo nominato il Lodo Petrucci. Per chi non lo conoscesse, si trattava di una clausola che impediva alle squadre fallite di ripartire dai dilettanti permettendone l'iscrizione alla categoria inferiore. Per fare un esempio: a un club di Serie A che falliva veniva permesso di partecipare alla Serie B. Questo provvedimento che serviva a garantire una continuità sportiva è stato abrogato nel 2014, ma questo non ci interessa.
Quel che ci importa sono invece i requisiti necessari per accedere alla procedura del Lodo Petrucci:
- Possedere una società di capitali, con capitale non inferiore a 10.000 euro;
- Inviare una lettera di richiesta in nome della società;
- Allegare una fidejussione bancaria per 50.000 euro.
Magari non tutti sono esperti di economia, ma vi basterà sapere che richiederla era davvero semplicissimo. Addirittura, secondo lo stesso Marengo "tutti potrebbero riuscirci". E allora come mai nell'estate 2005 nessun imprenditore si è fatto avanti per salvare il Torino?
Facciamo una premessa: non siamo soliti parlare di teorie complottiste né vorremmo gettare fango su qualsiasi squadra o sulla sua proprietà. Quello che vi stiamo per dire è frutto di una serie di voci di corridoio e magari non coinciderà esattamente con la verità. Siete dunque liberi di crederci o meno; però una cosa è certa: visto l'epilogo verso cui si stava dirigendo il Torino, quest'assurda teoria non sembra poi tanto inverosimile.
Andiamo con ordine.
Come molti di voi ben sapranno, nel 2006 Torino ha ospitato le Olimpiadi Invernali. L'assegnazione da parte del CIO, avvenuta nei primi anni 2000, ha però innescato un vero e proprio restyling del capoluogo piemontese. Il Comune mise per un attimo da parte la crescita industriale della città per concentrarsi invece sulla riqualificazione di piazze, palazzi storici e musei: Torino doveva mostrarsi accogliente agli occhi degli avventori che l'avrebbero invasa di lì a poco.
A voler fare bella figura era anche la Juventus che intendeva imporsi come unica e sola squadra della città. I bianconeri volevano a tutti i costi l'assegnazione dello Stadio delle Alpi, arrivando a minacciare il Sindaco di spostare le proprie partite casalinghe in un'altra struttura. Naturalmente la Giunta non poteva accontentarli, visto che in quello stadio ci giocava anche il Torino.
Qui i giochi di potere si mischiano con la leggenda. Fatto sta che gli Agnelli progettarono un piano per ridimensionare l'importanza del club granata che in quegli anni era di proprietà del genovese Massimo Vidulich. Sotto la sua presidenza, il Toro ha ottenuto una promozione in Serie A, alla quale è seguita però una retrocessione. Contro Vidulich si scagliò allora una campagna mediatica clamorosamente forte, con i principali giornali che lo invitarono a vendere il club e ad andarsene.
Il genovese si arrese e nel 2000 cedette il club per 35 miliardi di lire a Franco Cimminelli, un imprenditore calabrese vicino a Paolo Cantarella, allora amministratore delegato della FIAT. Cimminelli non ha mai nascosto la propria fede juventina e per farsi acclamare dalla tifoseria granata si servì di Giuseppe Aghemo, uomo del mondo confindustriale e noto tifoso del Toro. Passò poco più di un mese dal suo ingresso alla presidenza e Cimminelli licenziò Aghemo, rimpiazzandolo con Tilly Romero, dipendente FIAT nonché portavoce di Gianni Agnelli.
Senza usare mezze misure: la Juventus aveva preso possesso del Torino e puntava a trasformarlo in una realtà provinciale. Tuttavia, l'esperienza di Cimminelli al timone dei granata iniziò nel migliore dei modi: nel 1999/2000 arrivò la promozione in A e l'anno seguente l'undicesimo posto in campionato regalò il ritorno in Europa, nella Coppa Intertoto.
Dal punto di vista finanziario, la gestione societaria fu un disastro e, per sopperire ai debiti, il Torino fu costretto a smantellare una squadra composta da giovani talenti dal futuro assicurato. In poco tempo, i vari Quagliarella, Mudingayi, Balzaretti, Marchetti e Sorrentino lasciarono la Mole per accasarsi altrove. Tecnicamente depauperato, nella stagione 2002/03 il Toro retrocedette in Serie B.
Dopo appena 2 anni, i granata trovarono la promozione in Serie A, grazie anche alla sapiente guida di Renato Zaccarelli. Ma al momento dell'iscrizione al massimo campionato, i responsabili della Federcalcio individuarono delle false fideiussioni nelle casse di Cimminelli. I tifosi non presero bene la mancata iscrizione, ma il loro malumore si tramutò presto in puro sconforto quando il Tribunale avviò le pratiche per dare il via al fallimento della società.
Come abbiamo detto all'inizio, nonostante l'esistenza di un paracadute come il Lodo Petrucci, nessuna cordata si fece avanti per salvare il Torino. Non fosse stato per Marengo e i suoi soci, il club granata sarebbe scomparso dalla scena del calcio italiano. A detta dello stesso avvocato, tutti avevano paura dei cosiddetti "poteri forti" e non potevano mettersi contro gli Agnelli che volevano vedere il Toro fallire.
Il 25 agosto la FIGC accoglie però il ricorso presentato dall'avvocato e dopo appena una settimana è Urbano Cairo a prendere in mano le redini del Torino. Sebbene i tempi gloriosi del passato siano ormai lontani, oggi la società ha raggiunto una buona stabilità in Serie A.
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