Romelu Lukaku, il centravanti (im)perfetto emblema del calcio moderno

Romelu Lukaku
Romelu Lukaku / 90min Italia
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Sbagliare i gol più facili e segnare i più difficili. La storia del calcio è piena di storie di attaccanti con questo incipit. Attaccanti che, fatalmente, non hanno raggiunto le vette del calcio mondiale, un po’ per limiti propri e un po’ per quelli di squadra, perché nessun top team vorrebbe tra le proprie fila un bomber che non è tale al 100%, visto che ai centravanti di razza è chiesta freddezza in particolare nei momenti decisivi.

“Segnare una tripletta contro l’ultima in classifica e restare a secco contro la prima non è da grandi attaccanti” dice il tifoso da bar, notoriamente tra i più intenditori. Come in ogni contesto, però, ci sono delle eccezioni. Romelu Lukaku rappresenta un’eccezione a metà, perché il colosso del Congo belga non sarà ricordato come uno dei centravanti più forti della storia e neppure tra i più prolifici, ma di sicuro tra i più potenti sul piano fisico ed anche eclettici, vista la capacità mostrata nell’adattarsi con effetto immediato ad un campionato difficile come quello italiano, al quale Romelu era arrivato dopo tante stagioni in Premier League, dove invece l’approccio non era stato felicissimo.

Pool/Getty Images

A tutto questo si deve aggiungere la particolarissima storia dell’infanzia di Lukaku, caratterizzata da una povertà estrema. Se infatti tutti noi siamo cresciuti giochicchiando a calcio nel giardino o magari direttamente nel salotto di casa e guardando alla tv campioni presto trasformati in idoli, per Romelu tutto questo non è stato possibile, o lo è stato per poco. Semplicemente perché la tv non poteva permettersela: "Mio padre era stato un calciatore professionista, ma era a fine carriera e i soldi se ne erano andati – ha raccontato l’attaccante in una struggente intervista a ‘The Player’s Tribune’ ai tempi della militanza nel Manchester United -. La prima cosa a sparire fu la TV via cavo. Poi capitava di tornare a casa e la luce non c'era più, niente elettricità per due o tre settimane per volta".

Una bella mazzata per chi aveva già intuito di saper dare calci ad un pallone, ma comunque nulla di troppo preoccupante se oltre al tubo catodico in casa mancavano anche cibo e qualche volta acqua. Romelu da Anversa però ce l’ha fatta. Grazie all’ottimismo e all’amore della madre, ancora oggi un punto di riferimento, e alla proprie doti calcistiche che gli hanno permesso di bruciare rapidamente le tappe: dopo la gavetta con il Rupel Boom, a 11 anni ecco l’ingresso nelle giovanili del Lierse, club oggi scomparso, ma che a cavallo del nuovo millennio visse un periodo di splendore coronato con la partecipazione alla Champions ’97. Dopo due anni ad accorgersi delle qualità del ragazzo fu l’Anderlecht, la società più potente e blasonata del Belgio. A quel punto, era praticamente fatta, perché le qualità di Lukaku apparvero chiare a tutti e quei pochi che non erano ancora convinti da una tecnica rivedibile furono serviti con il titolo di capocannoniere del campionato belga vinto a 17 anni.

Anderlecht's forward Romelu Lukaku celeb
Anderlecht's forward Romelu Lukaku celeb / JOHN THYS/Getty Images

Ma qual è il calcio di Lukaku? Pur senza poter vedere tante partite in tv da bambino, il ragazzo ha impiegato poco tempo per capire che il proprio modello cui fare riferimento era Didier Drogba. L’obiettivo è stato centrato solo in parte, perché la tecnica e la classe dell’ivoriano restano inavvicinabili non solo per Lukaku, senza contare la succitata freddezza nei momenti chiave (ne sa qualcosa il Bayern Monaco pensando alla Champions 2012…), ma il paragone è utile per collegarci a un paio di icone recenti della storia interista, Samuel Eto’o, che di Drogba è stato l’alter ego storico nel primo decennio degli anni 2000 per quanto riguarda le stelle del calcio africano, ma soprattutto José Mourinho, che con Drogba ha dato vita agli anni ruggenti della storia del Chelsea e che con Lukaku ha avuto un rapporto di “amore-odio”.

La prima notte da sliding doors nella carriera del belga è quella del 30 agosto 2013: appena rientrato alla base del Chelsea, che lo aveva acquistato dall’Anderlecht per milioni due anni prima e che dopo una prima stagione deludente lo aveva ceduto in prestito al West Bromwich Albion per poi riportarlo a casa dopo un’annata da 17 gol, Lukaku viene mandato in campo da Mourinho nel finale della Supercoppa Europea contro il Bayern Monaco, a Praga, ma è protagonista del rigore decisivo sbagliato e di una prestazione non esaltante, che convincono lo Special One a smistarlo. Il prestito all’Everton fu l’apripista all’addio definitivo al Chelsea, visto che la maglia dei londinesi Lukaku non la indosserà più.

Di blue in blue, però, a Goodison Park avviene la consacrazione definitiva: con quasi 90 gol in quattro anni Lukaku fa vivere ai Toffees le stagioni migliori degli ultimi trent’anni, a suon di record di squadra a livello di punti e personali come realizzazioni. Sembra tutto pronto per il secondo tentativo in un top team e invece le due squadre successive della carriera di Lukaku saranno ex super big che da qualche anno vedono i primi posti da lontano, Manchester United e Inter. A Old Trafford Romelu ritrova José Mourinho, che in quella notte di Praga l’aveva solo rimandato e non bocciato e che, conquistato dai numeri, con i club (giocatore più giovane a raggiungere e superare la soglia di 50 gol nel campionato inglese) e la Nazionale, trascinata al terzo posto al Mondiale 2018 dopo esserne diventato il miglior goleador di sempre un anno prima, volle scommettere ancora sul belga.

Quello con i Red Devils sarà però un amore a metà, che beffardamente iniziò com’era finito quello mai sbocciato con il Chelsea, ovvero una finale di Supercoppa Europea persa (ma questa volta con un gol del nostro), contro il Real Madrid, e che dopo i primi mesi di boom a suon di gol sfiorì lentamente, anche ben prima dell’esonero di Mou e dell’avvento di Ole-Gunnar Solskjaer, il cui tipo di ideale calcistico non si confa con le caratteristiche del belga. Eppure proprio in quegli anni, senza saperlo, Lukaku aveva già vissuto il secondo episodio da sliding doors della propria carriera, avendo affrontato da avversario Antonio Conte, manager del Chelsea per un biennio. Il tecnico salentino fu subito conquistato dalle qualità di Romelu, persuadendosi che l’amico-nemico Mourinho non lo stesse valorizzando a dovere, facendolo giocare spalle alla porta, invece che con il viso rivolto alla rete avversaria per sfruttare le sue portentose progressioni.

Wolverhampton Wanderers v Manchester United - Premier League
Wolverhampton Wanderers v Manchester United - Premier League / Marc Atkins/Getty Images

Così, impossibilito a chiederlo per il suo Chelsea vista la traumatica fine del rapporto con i Blues, ne fece la prima richiesta una volta sbarcato all’Inter. Dagli 85 milioni scuciti dal Manchester per acquistarlo dall’Everton ai 75 che la famiglia Zhang ha versato per accontentare Conte, nonostante la peggior stagione della carriera di Lukaku, le cifre parlano di un top player che non è però ancora riuscito a fare l’ultimo salto del quale si parlava nell’incipit per entrare nell’empireo dei bomber, almeno per quanto riguarda l’inizio del Millennio. L’adattamento alla Serie A è stato più immediato di quello alla Premier, grazie alle caratteristiche del campionato e del calcio di Conte, che ai propri attaccanti chiede numeri realizzativi, ma anche partecipazione alla costruzione della manovra offensiva e più in generale al gioco, dialogo con il o i partners di reparto (da qui la bocciatura di Icardi da parte di Conte) e una certa dose di creatività.

L’intesa con Lautaro Martinez è stata rapida e fortunata, per la gioia di chi ritiene che il reparto d’attacco meglio assortito sia composto da un centravanti di stazza e una seconda punta-fantasista che gli gira intorno, ma non bisogna dimenticare che il piano originario di Conte era affiancargli Dzeko e la coppia sarebbe stata compatibile sul piano tattico. In realtà nella La-Lu del Conte I all’Inter c’è stato molto di più, perché il belga e l’argentino si sono spesso scambiati le parti, con il pivot a fare la boa e viceversa e con Lu visto non di rado nelle vesti di assist-man, supplendo con le qualità spalle alla porta ad una tecnica non di primissimo piano.

MARCO BERTORELLO/Getty Images

I numeri parlano della miglior stagione della carriera, con il muro dei 30 gol abbattuto: dati figli delle intuizioni di Conte, che lo ha felicemente battezzato come centravanti di potenza e profondità e che confermano le caratteristiche del giocatore, a proprio agio in campo aperto per sfruttare la velocità, ma soprattutto di fronte a difese chiuse da aprire con la potenza, da sprigionare più con le gambe che nel gioco aereo.

Dalla parte dei detrattori o comunque di chi realisticamente non lo pone tra i primi 20 giocatori più forti del pianeta ci sono notti come quella contro il Barcellona, sfida chiave in Champions, o all’andata contro la Fiorentina, altra gara snodo, ma per il campionato. Notti di gol sbagliati goffamente, proprio nel momento sbagliato. Ma che la perfezione non sia con Romelu è un fatto noto, quanto non pertinente.

Anzi, vedere giocare Lukaku è un consiglio da dare a tutti i bimbi appassionati di calcio, e ai loro genitori che vogliono introdurre i propri pargoli allo sport più praticato al mondo. Perché se Messi è Messi dalla nascita e Ronaldo è diventato suo rivale grazie a tanto allenamento, così anche Romelu ha dimostrato che la forza di volontà è tutto, o meglio quasi tutto, perché va unita a una sana fiducia nei propri mezzi, che non deve sfociare nella presunzione, e nel realismo, dote imprescindibile per sfruttare le proprie qualità. Inoltre vedere giocare Lukaku è un esempio di ciò che voglia dire essere un calciatore ai tempi moderni, durante i quali senza un mix tra tecnica e forza fisica è impossibile arrivare a livelli altissimi, sempre a meno che non si nasca Leo Messi.

Il pezzo forte del repertorio è la progressione palla al piede, in cui sprigionare velocità, ma anche tecnica e una potenza straordinaria quanto rara e capace di rendere normali scene di difensori avversari incapaci di fermarlo pur a volte aggrappandosi alla sua maglia. Il suo contributo al gioco offensivo della squadra come movimenti senza palla non viene quasi mai meno, altra caratteristica che lo rende modernissimo. In una stagione particolare e, si spera, irripetibile per il calcio mondiale, vedere Lukaku sollevare il primo trofeo internazionale della carriera sarebbe un bel messaggio di fiducia e resilienza per i giovani calciatori. E per chi pensa che per arrivare in alto non si può vivere solo di tacco e punta.


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