Il no ad altri club italiani, il milanismo e il segreto dell'Inter: parla Maldini

Paolo Maldini
Paolo Maldini / Ciancaphoto Studio/GettyImages
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A un anno di distanza dal burrascoso e dibattuto addio al Milan, Paolo Maldini si racconta in un'intervista a tutto tondo concessa a Radio Serie A. L'ex bandiera ha svelato di aver declinato offerte di altri club italiani che lo volevano come dirigente per amore dei rossoneri e ha ripercorso le mitiche stagioni con Sacchi, Capello e Ancelotti.

Cos'è per te il calcio? "Il calcio è sempre stato presente. Il Milan è sempre stata la squadra della mia città, l'ambiente dove sono cresciuto e per me è qualcosa che va al di là del tifo e del lavoro. È sempre stato così e sarà sempre così. Il rapporto che c'è va al di là delle ere in cui sono passato in questa grande società e sarà così anche per i miei figli".

Ti consideri un custode del milanismo? "Non lo so, lo possono dire gli altri. Di sicuro il calcio e il Milan mi hanno insegnato tanto come valori e come principi e quando lavori per questo club ne devi tenere conto perché va al di là del risultato. quando si parla di una storia ultra centenaria, va conosciuta e studiata. 20 anni fatti con me? Sono contento, ma la mia storia parte negli anni 50 con mio papà e oggi sta andando avanti ancora perché Daniel è ancora sotto contratto".

Sulle responsabilità: "Io non sento la responsabilità. Certo quando sei all'interno della società il ruolo te lo impone. Ma per il resto mi sento solo Paolo, non solo il milanista. Io non ho mai scisso il calciatore e l'uomo e la gente mi apprezza per questo. È questione di disciplina".

Sul suo esordio: "Liedholm mi disse "Malda entri", mi chiese se volessi giocare a destra o sinistra e risposti "come vuole lei". Il campo era bruttissimo, ma per me è stato magnifico. Si, sono legato moralmente dentro di me alle relazioni con le persone più che ai momenti in sé. La cosa bella è che devi condividere con altre persone gioie e dolori. Liedholm mi ha insegnato a giocare a calcio. Lui mi ha sempre detto che per giocare a calcio devi divertirti".

Su Berlusconi: "Ha portato un'idea moderna e visionaria non solo del calcio ma del mondo. Il primo discorso nella sala pranzo a Milanello ci disse che voleva che la nostra squadra giocasse il più bel calcio del mondo, lo stesso in casa e in trasferta, e che presto saremmo diventati campioni del mondo. Dall'anno dopo, perché il primo è entrato in corsa, è cambiato tutto. Ha preso preparatori, costruito strutture per competere con i top al mondo. C'è sempre tanta diffidenza per l'imprenditore che entra nel calcio. Sacchi poteva creare e ha creato qualche dubbio, ma poi abbiamo capito i grandi vantaggi".

Il rapporto con Berlusconi si era logorato? "La sua impronta è ovunque. A me piaceva molto la sua idea di cercare di giocar bene, cercare di vincere e rispettare l'avversario. Lui diceva che se non vince il Milan, mi fa piacere che vinca l'Inter. Naturalmente c'è rivalità, ma l'idea di essere onesto e arrivare al risultato attraverso il sacrificio e complimentarsi con un avversario se è più bravo di te è un insegnamento. Non si è mai logorato quel rapporto, facevamo tante battute, sono diventato amico di PierSilvio e lui mi ha sempre trattato come secondo padre. Quando è stato ricoverato in ospedale mi ha chiamato perché voleva fare degli scambi Milan-Monza ed è stato divertente. Il calcio lo ha accompagnato fino all'ultimo momento e questo si sente e si trasmette a tutti, ambiente, città, luoghi e persone".

Su Sacchi: "Noi ci siamo messi a disposizione di Sacchi, ma è stato durissimo fisicamente e mentalmente. C'era conoscenza, ma non ancora abbastanza. Io sono andato in overtraining di continuo per mesi allora. Si doveva ancora calibrare. I giovani hanno meno stabilità di performance e c'erano un sacco di alti e bassi e dentro di te ti chiedi se stavi facendo bene o no. L'adattamento piano piano è arrivato. Io spesso arrivavo al venerdì e mi dicevo: "ma come faccio a giocare domenica?". Tutto questo però ha alzato il livello, l'abbiamo capito dopo un mese e mezzo, quando abbiamo vinto a Verona sentendo nelle gambe qualcosa di diverso. Non c'era nessuna corrente contro di lui, era solo duro adattarsi".

Ossessione per la vittoria: "Il Milan di quegli anni aveva comunque una grandissima squadra e la difesa migliore del mondo già lì pronta fatta e finita. Quando trovi una persona così esigente che deve gestire un gruppo è un progetto che ha una scadenza. Quando vivi in un modo così ossessionato non duri a lungo. Se sto parlando di Conte? No, ma è così anche per lui, se senti parlare i suoi giocatori te lo dicono".

Su Capello: "Era un giocatore in panchina. Ti diceva sempre qualcosa da fare in campo durante l'allenamento. Ha proseguito il lavoro di Sacchi rallentando però il ritmo e avevamo 25 giocatori di altissimo livello, ma ha aggiunto un minimo di praticità ad un concetto utopistico come quello di Sacchi. Liedholm, Sacchi, Capello in quest'ordine è stata una fortuna".

Su Ancelotti: "La prima cosa che ci siamo detti è stata: "Come ti devo chiamare?" poi però è stato tutto naturale. Di Carlo si pensa che sia la persona più tranquilla del mondo e lo è. Però non è così per davvero, prima delle partite spesso e volentieri si sedeva accanto a me e mi diceva che era nervosissimo ma guardava me e si calmava".

Il compagno e l'avversario più forti: "Come forza morale e caratteristiche difensive Franco Baresi era un giocatore pazzesco. Lui era perfetto. Poi Van Basten che è stato incredibile. Poi tanti giocatori sono arrivati in momenti non idilliaci, ma erano fortissimi come Ronaldo e Ronaldinho. Il Ronaldo dell'Inter era qualcosa di impossibile. A me piaceva fare quello che dice all'avversario: 1 contro 1 dai andiamo, ma con lui non si riusciva. Lui era grosso, veloce, tecnico, molto difficile".

Sulle finali perse: "Come posso dire che il Pallone d'Oro fosse un qualcosa che certifica che fossi il migliore? Per me non è un rimpianto. Non ho mai vinto il Mondiale e l'Europeo, quelli erano gli obiettivi che mi ero prefissato. Dissi che sono stato il più grande perdente della storia? Sì, era parte di un discorso più ampio. Ho perso 9 finali nella mia storia, e son tante... Istanbul un rimpianto? No dopo Istanbul c'è sempre Atene".

Sul Maldini dirigente: "Mi hanno chiamato e quando l'opportunità è arrivata, un pochino prima di quando me l'aspettassi. Quando è arrivata con Leonardo è stato perché ho lavorato con una persona che aveva gli stessi ideali. Perché ho scelto questo ruolo? Perché era il Milan. Il lavoro in sé è tutt'altro rispetto a quello che ti aspetti e ci ho messo una decina di mesi. O Milan o Nazionale o niente? La regola vale per l'Italia perché vedermi all'interno di un club diverso dal Milan non ce la faccio".

Sul PSG: "Non ho mai detto no al PSG, c'era stata questa possibilità e disponibilità, ho incontrato due volte Nasser Al Khelaifi, ma poi non si è mai andati avanti ed è stato bene così. I miei primi 10 mesi sono stati un disastro, tornavo a casa e non ero contento. Leonardo rideva e mi diceva che non capivo quanto stavo diventando importante".

Su Theo e Leao: "Quando vedo la fascia sinistra del Milan, beh è uno spettacolo".

Il segreto dell'Inter: "L'Inter ha una struttura dell'area sportiva. C'è un'idea ben precisa con contratti lunghi. Si da sempre poca importanza alla gestione del gruppo, non è un caso che il Napoli sia andato così male dopo l'addio di Spalletti e Giuntoli. I calciatori li considerano tutti come macchine, ma hanno bisogno di qualcuno che parli con loro e gli dica come stanno le cose".

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