Il senso del (decadente) trasferimento di James Rodriguez al San Paolo
Quello del 2014 è un Mondiale che in molti ricordano con un sorriso. Sarà che è ad oggi l'ultimo al quale ha preso parte l'Italia, oppure perché il suo paese ospitante, il Brasile, altro non è che la patria del calcio per strada, quello originale e originario, dove ai bambini basta ancora un pallone sgualcito e una porta dipinta sul muro fatiscente di una favela per essere felici. Sarà che le due edizioni successive, quelle del 2018 e del 2022, si sono tenute in due nazioni in cui lo sport è solo uno strumento di facciata per nascondere orrori indicibili e diritti negati. Non che il Brasile sia uno stato perfetto, anzi. Ma in una società in cui le disparità sono profonde come voragini, il calcio sembra essere l'unica cosa che mette davvero tutti d'accordo.
La Coppa del Mondo brasiliana fu quella delle false speranze, delle promesse non mantenute. A cominciare da quelle dell'Italia che, dopo il flop di quattro anni prima, era chiamata a rivendicare lo scettro da campione conquistato nel 2006, salvo poi farsi eliminare ai gironi. Per non parlare della Germania, vincitrice del torneo, che avrebbe voluto dare il via a un'era ricca di trionfi, ma il cui successo, col senno di poi, è essenzialmente merito della golden generation del Bayern Monaco allenata dalla mente geniale di Guardiola e portata al trionfo da Löw. E fu proprio la banda teutonica a stroncare i sogni di gloria del Brasile nel celebre Maracanazo.
Ma una delle favole più belle del Mondiale del 2014 fu senz'altro quella della Colombia, squadra che in rosa poteva vantare la leggenda Mondragon (secondo giocatore più vecchio ad aver mai giocato una partita di una Coppa del Mondo), diversi giocatori della nostra Serie A, come Armero, Zuniga, Yepes, Cuadrado e Zapata, ma che dovette fare a meno dell'infortunato Radamel Falcao. Con il Tigre fuori dai giochi, a farsi carico del peso offensivo fu dunque un trequartista mancino con la 10 sulle spalle: James Rodriguez.
James si era trasferito solo l'anno prima al Monaco dal Porto. Di lui si diceva un gran bene ma nel Principato non aveva brillato particolarmente. In Brasile però si prese le luci della ribalta a suon di gol, assist fantascientifici e un carisma da vero leader. La rete rifilata all'Uruguay agli ottavi di finale è ormai storia e quella volée gli valse anche il Puskas Award.
Credo sia impossibile rimanere indifferenti alla narrazione che il numero 10 porta con sé, ossia quella di un giocatore tecnico, offensivo, che corre poco ma lo fa coi tempi giusti, di un trascinatore che riesce a prendere per mano i compagni e che sa quando tirar fuori la giocata vincente. Il James del 2014 era tutto questo. La Colombia venne poi eliminata ai quarti ma per El Diez le porte del calcio d'élite si erano spalancate.
Inizialmente tutti lo chiamavano all'inglese. Ma ben presto "Gieims" divenne "Hames" e la risoluzione della questione legata al suo nome sembrava l'anticamera di un futuro calcistico radioso. Qualche settimana più tardi, il Real Madrid diede il benservito nientemeno che a Özil e pur di avere il colombiano con sé sborso 80 milioni di euro e gli diede la camiseta numero 10.
A vederlo lì al fianco di Florentino Perez durante il suo battesimo madridista sembra di assistere alla scena di un film, dove il protagonista corona il proprio sogno di vestire la maglia più bella della squadra più famosa al mondo.
Se nella Colombia può giocare da deus ex machina, con i Blancos la questione è ben diversa: la stella è Cristiano Ronaldo e tutti gli allenatori, da Ancelotti a Zidane, passando per Benitez, sanno che l'obiettivo è quello di far giocare la squadra in modo da permettere al portoghese di fare il fenomeno. James soffre questo ruolo da comprimario ma si adegua comunque. L'anno seguente però arrivano gli infortuni e - si sa - rimanere fuori per diversi mesi in un top club come il Real è sempre complicato perché poi la concorrenza, spietata, ti supera. A Madrid la magia che l'aveva avvolto nel 2014 si perde, quel tocco divino testimoniato anche dalla locusta che festeggia con lui dopo il gol rifilato al Brasile è un lontano ricordo. Pur di ritrovarlo sceglie di lasciare la Spagna e di seguire Ancelotti al Bayern Monaco. Sarà l'inizio di una'Odissea le cui tappe sono sempre più improbabili, sempre più mortificanti.
In Baviera James gioca bene ma, nonostante le due stagioni discrete, non viene comunque riscattato. Fa ritorno a Madrid, dove però Zidane ha dato vita a uno dei cicli più vincenti della storia del calcio. La 10 è ormai di Modric, allora ripiega sulla 16. Si siede in panchina e si alza solo 6 volte.
La luce in fondo al tunnel la accende ancora una volta Ancelotti, suo padre putativo, che dopo averlo avuto al Real e al Bayern lo vuole con sé anche all'Everton. I Toffees lo acquistano a titolo gratuito (c'è qualcosa di più umiliante per un giocatore?) e la magia sembra essere improvvisamente tornata. La sua prima stagione nel Merseyside si conclude con 6 gol e 9 assist in 23 partite, tutti credono nella sua rinascita.
A tradirlo però è proprio Re Carlo, che nell'estate del 2021 approfitta del vuoto di potere lasciato da Zidane per riprendersi la corona del Real Madrid. James ritrova Benitez che anche stavolta decide di non puntare su di lui e di metterlo fuori rosa.
Dopodiché l'ex trascinatore della Colombia getta la spugna. A 30 anni appena compiti prima lascia l'Europa per accettare la ricca offerta dell'Al-Rayyan, poi ci ritorna per un'esperienza tanto esotica quanto fallimentare con l'Olympiakos, dove tra l'altro ritrova l'ex compagno Marcelo. Rimasto svincolato dopo la parentesi greca, James torna in Sudamerica e firma per il San Paolo, uno di quei club che fungono allo stesso tempo sia da fucina per nuovi talenti sia da cimitero degli elefanti per giocatori che hanno poco da dire ma vogliono sentirsi ancora importanti.
È una destinazione desolante, soprattutto considerando che, almeno in teoria, avrebbe ancora l'età per poter fare la differenza in un calcio più importante. Eppure, comprendiamo il senso della sua decisione: James tornerà infatti in Brasile, terra che lo ha reso grande, dove ci ha regalato colpi da genio del pallone. È un trasferimento un po' malinconico, in controtendenza rispetto al suo gioco allegro ed esuberante, ma forse aveva bisogno di chiudere il cerchio e di giocare in quegli stessi stadi in cui potrà finalmente sentirsi quel campione che, per una serie di motivi, non è riuscito a diventare.