Dagli aneddoti di Milanello allo Scudetto in rossonero: Pioli racconta il suo Milan
"Dopo i saluti all’ingresso sono andato sul campo e ho trovato, a destra, tra gli alberi, la statua di Rocco. Mi ha fatto specie: “Porca miseria dove sono arrivato”. Mi sono subito sentito a mio agio. Non so se ben accolto, ma stavo bene". Intervistato da 7, settimanale del Corriere della Sera, Stefano Pioli ricorda così il suo a Milanello nell'ottobre 2019. Ecco i passaggi principali dell'intervista del tecnico del Milan.
Sui cambiamenti nel corso della carriera:
"Le mie priorità sono sempre le stesse: motivare i giocatori, metterli bene in campo e dargli idee. Prima ero più schematico, mi affidavo alla tattica, ora so che non vinci per il sistema di gioco, 443 o 4231, ma per l’insieme di talento, passione, sudore, sacrificio, voglia di lottare per obiettivi chiari. Carattere, insomma. E intelligenza. Ora sono più strategico, e con lo staff ampio posso concentrarmi sui singoli giocatori. Con Maldini e Massara non si parla di giocatori bassi o alti, destri o mancini, ma intelligenti. La tecnica è un dato acquisito, la forza ed esplosività di gambe serve, ma il futuro del calcio è dei giocatori che sanno riconoscere in anticipo e velocemente come sviluppare la situazione, leggere gli spazi da occupare".
Sulle caratteristiche da giocatore:
"Non avevo la velocità di Tomori o Kalulu, non ero da Milan: io ero un giocatore da squadra medio alta, da Fiorentina, dove poi ho giocato. Se sono riuscito ad arrivare a certi livelli è perché sapevo mettere a posto i compagni come posizione, sapevo parlare, calcisticamente parlando. Mi rivedo in Kjaer, comunica tanto e bene. Avere un difensore come Simon e un portiere come Maignan vuol dire dare una certa organizzazione. Io sono stato adottato dai miei compagni, soprattutto da Gaetano Scirea, andavamo al ristorante assieme, a casa sua dopo l’allenamento. Ho vissuto con campioni in campo e fuori, intelligenti, seri, rispettosi con tutti. Anche con me che finivo per lo più in panchina".
Sull'allenatore a cui si ispira maggiormente:
"A tutti, ma chi ho copiato di più è Bagnoli, al Verona. Parlava poco, ma una volta al mese ci riuniva negli spogliatoi e dava un giudizio a ognuno. “Stefano continua così” mi diceva. Ad altri “Tu se continui così stai fuori”, “Te giochi troppo all’ombra”, “Tu potevi fare atletica”... Cose sottili e sferzanti. Il primo giorno di ritiro a Cavalese, eravamo 16 o 17 giocatori, diede la formazione: “Fioi”, disse in milanese riferendosi ai suoi 11 con la mano, “questi qua sono qua, e voi”, quelli che non aveva nominato, più in basso, “siete qua. Se fate così”, alzava la mano, “giocate voi. Ma se gli altri fan così”, e saliva ancora, “giocheranno sempre loro”. Oggi non si può essere così netti: io nella casa al mare mi faccio un’idea dei miei, tra virgolette, 11 titolari, ma non ho mai cominciato o finito il campionato con la formazione d’estate. Insomma: non si può dire sempre tutto, ma da una fessura può nascere una crepa, meglio chiarirsi prima. E conoscersi. Per valutare un giocatore devo sapere che cosa gli sta succedendo. Io tutti i giorni parlo con tutti i giocatori".
Sulla risata di Leao:
"Appena arrivato, con i miei collaboratori ci siamo detti: “Oh, ma qui abbiamo un giocatore che gioca ridendo?”. Poi abbiamo capito che è una smorfia naturale, il suo modo di fare".
Sui propri giocatori:
"Sono belli, anche nelle stranezze. Sembra non siano concentrati, forse è serenità, consapevolezza... è la loro forza: spengono la musica due minuti prima di entrare in campo belli concentrati. Ai miei tempi, quando per telefonare facevi la fila col pacco di gettoni, non era permessa la musica negli spogliatoi. Oggi invece mi preoccupo se c’è silenzio. Ci carichiamo con la musica in pullman e prima di entrare in campo Theo mette Selfish di Eminem... e se vinciamo, al ritorno in pullman, tutti a cantare, canto anche io".
Sulla crescita dei propri giocatori:
"Per molti, che ho iniziato ad allenare che avevano 19 o 20 anni, crescere è stato naturale. Io ho fatto il mio, ma il merito è diffuso: dirigenza, staff e ambiente. L’ambiente che c’è qui e che abbiamo creato. Io non vedo l’ora di svegliarmi la mattina per venire a Milanello, si sta bene, sono felice. Credo sia così anche per loro. Ad esempio: noi abbiamo la colazione obbligatoria e il pranzo, che però è senza orario. Ognuno ha esigenze diverse: ghiaccio, massaggi o altro, inizia quando può. Ma poi restano tutti fino a tardi, e per non andare lunghi in cucina abbiamo messo un limite orario. Cosa vuol dire? Che stanno bene e sono felici di stare assieme. Io ho vissuto in squadre dove i giocatori non vedevano l’ora di andare via, stavano lì giusto il tempo limitato per fare allenamento".
Sul cartello del 2022:
“Succede solo a chi ci crede”. A inizio stagione ho detto che il primo anno eravamo arrivati sesti, poi secondi... ci va bene arrivare ancora secondi? E tutti: “No!”. Allora ho chiesto cosa servisse per vincere. Son partito da Zlatan, Giroud, Maignan e Theo che avevano vinto già campionati o coppe".
Sulle risposte di Ibra e Giroud:
”Zlatan? “Rabbia”, serve “rabbia”. Talento”. Poi “fame”, come tutti. Ci ha permesso di vincere il derby, che se perdevamo addio campionato, e poi la Lazio, battuta all’ultimo minuto, conservando il vantaggio sull’Inter sconfitta dal Bologna. Da lì sapevamo che se non vincevamo perdevamo lo scudetto".
Sul sapore della vittoria:
"È stato bello con mio figlio in pullman, al ritorno da Sassuolo, Zlatan ha preso il microfono e faceva un commento su ognuno. Poi sul pullman scoperto a Milano... ma ora che ci penso direi sulla terrazza a Milano, di notte, c’erano ancora i milanisti che festeggiavano e io e mio figlio ci siamo fumati un sigaro cubano. Lo dico sempre a Barbara, mia moglie, un giorno andiamo a Cuba...".