Baresi, 60 anni da leggenda: "Il Milan è la mia vita"

Emilio Andreoli/Getty Images
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E' il compleanno di Franco Baresi, una delle leggende della storia del Milan. Il difensore, che compie 60 anni, ha rilasciato una lunga intervista a Milannews.it

Se dovesse spiegare ad un giovane cosa voglia dire essere milanista, cosa le direbbe?
“Tanti giovani mi hanno visto in televisione e non hanno vissuto dal vivo i miei anni. Il Milan è la mia vita. Penso alla mia infanzia e alle tappe che ho dovuto affrontare. Sono arrivato adolescente e oggi, a 60 anni, sono un po’ più maturo e più saggio. Col Milan ne ho viste tante, sia sul campo sia da dirigente. Ho incontrato tante persone lungo il cammino che mi hanno crescere, mi hanno forgiato e mi hanno dato”.

Chi più delle altre?
“Vorrei citarne cinque: Rivera, Rocco, Liedholm, Berlusconi e Sacchi. Sono persone che mi hanno dato molto. Rivera è stato il mio capitano. Da lui ho imparato tantissimo, anche se l’ho avuto solo un anno perché lui era a fine carriera. Mi è servito tantissimo quell’annata dove vincemmo lo scudetto della stella con una squadra che non era, di certo, la favorita per vincere il campionato. Liedholm e Rocco sono state due icone e se penso a loro, mi vengono i brividi”.

Rocco in cosa l’ha formata?
Mi ha dato fiducia. Lui era bravissimo con i giovani. Mi ha lanciato in un ruolo non semplice e mi ha fatto esordire in Serie A contro il Verona al Bentegodi. Vincemmo 2-1. La mia prestazione non fu esaltante. La vittoria aiuta. I compagni furono eccezionali con me. E negli spogliatoi mi fece una battuta che mi fece diventare rosso perché disse: “Ah, hai giocato anche tu”, in dialetto triestino”.

Berlusconi invece?
“Ho avuto la fortuna ed il privilegio di averlo avuto per 30 anni come presidente. È stato lungimirante e, per me, è stato fondamentale. Ha portato la sua mentalità vincente dentro una squadra di calcio”.

Sacchi cos’è stato per lei?
“Arrigo è stato quello che mi ha completato e migliorato sotto tanti punti di vista. Ha introdotto una cultura del lavoro diversa. Preparava le gare in maniera diversa rispetto a quello che era il metodo abituale dell’epoca”.

Alessandro Sabattini/Getty Images

Qual è il momento più bello e quello più brutto della sua storia al Milan?
“Belli ne ho avuti tanti. Quelli brutti sono stati pochi, anche se il più brutto è stato quello della seconda retrocessione. Ebbi un’infezione da stafilococco che mi tenne fuori da ottobre fino a febbraio. Venne comprato Venturi per sostituirmi. Fu un’annata balorda”.

Il migliore che ricorda?
Uno solo è difficile. Anche se metterei in fila i primi due anni di Sacchi. Lo scudetto del 1988 è stato pieno di sorprese perché praticavamo un calcio nuovo, diverso. L’anno dopo siamo tornati in Coppa dei Campioni e l’abbiamo vinta. In breve siamo arrivati in cima al mondo. È stato un momento grandioso”.

Oggi i ragazzi non crescono più all’oratorio. Come si può recuperare il ruolo di quel luogo nella società di oggi?
Dare consigli al cuore dei giovani di oggi non è semplice. Ma l’aspetto umano è fondamentale. Lo sport deve essere fatto con amore e passione. Gli oratori sono sempre state delle tappe importanti per i giovani e per la loro crescita. Ma credo che siano anche fondamentali le persone che gestiscono questi ragazzi, che gli devono dare dei valori che vanno anche oltre il calcio”.

Cos’è successo nel 1986 con Bearzot che non la portò al mondiale?
Ho vestito due maglie, quella del Milan e quella della nazionale. Ho fatto tre mondiali con un primo, un secondo e un terzo posto. Mi è dispiaciuto non andare al mondiale di Messico ’86, ma con Bearzot ho avuto delle divergenze normali, ma io posso solo ringraziarlo. Nell’82 ero retrocesso con il Milan in Serie B e sono stato convocato per il mondiale di Spagna. Partecipare a quella coppa del Mondo mi ha fatto vivere momenti straordinari e ha lenito la delusione per la retrocessione. È stata un’esperienza che mi ha fatto crescere molto. La sua voglia era quella di vedermi giocare in coppia con Scirea, per quello ho anche deciso di cambiare ruolo”.

La fase attuale del Milan può essere paragonata alla sua storia?
No. In ogni club ci sono dei cicli con anche dei cambiamenti. Ci sono stati dei cambi di proprietà. Berlusconi è rimasto per 30 anni e quello, di certo, è un punto favorevole. Oggi c’è tanta concorrenza, non è semplice perché vanno rispettate diverse regole, come il Fair Play Finanziario. Penso che il Milan, comunque, possa tornare in alto”.

Nel 1982 fu cercato dalla Juventus, come si fa a dire di no ai bianconeri?
Erano solo voci, a me personalmente non è mai arrivata la richiesta di cambiare e penso che il Milan non abbia mai voluto vendermi. Sono cresciuto in questo club e non ho avuto nemmeno il pensiero, quell’anno mi fecero capitano, non so se ero pronto ma ho imparato strada facendo. La mia scelta è stata ricambiata, diventare capitano è stato un onore e uno stimolo enorme”.

Alessandro Sabattini/Getty Images


Quale finale di Champions persa le ha fatto più male?
Forse Marsiglia, anche se era una squadra molto difficile da affrontare, forte fisicamente. Il Milan in quell’occasione meritava di più. Chiaro che poi su ciò che è venuto fuori dopo uno ci pensa. Ma nelle finali deve girare tutto bene, si vede che era destino”.

In carriera è mai capitato di difendere i compagni dagli allenatori?
Non ho mai avuto questi problemi. All’inizio della mia esperienza da capitano non mi sono mai imposto con la voce, perché non contavo niente. Dovevo farmi valere in campo, sono diventato un punto di riferimento con il comportamento. Ho cercato di essere sempre un uomo sincero, di aver coraggio e ispirare i compagni senza lasciare indietro nessuno. Credo che questo sia il segreto”.

Il ritiro della maglia numero 6 l’ha emozionata?
Ricordo quell’estate quando Berlusconi decise di togliere la maglia numero 6, fu un gesto emozionante per me. C’è stata sempre riconoscenza nei miei confronti da parte della società, Berlusconi anche lì giocò d’anticipo e sorprese tutti”.

Il rigore del 1994 nella finale col Brasile l’ha tormentata?
Tenevo moltissimo a quel Mondiale perché ero capitano, c’erano tanti compagni di club e Sacchi allenatore. Quando mi sono infortunato alla seconda gara il mio morale era sotto i tacchi, vedevo che si stava frantumando la mia occasione. Devo solo ringraziare i miei compagni per aver giocato la finale, la squadra dimostrò grande carattere. E’ stato un successo giocare la finale, poi i rigori fanno parte del gioco. Anni dopo ci è andata meglio nel 2006 sempre ai rigori”.

Rimpianti per il Pallone d’Oro?
Ci sono andato vicino, ma davanti a me arrivò Van Basten in due occasioni, quindi non ebbi rimpianti”.


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